di Federico Avanzi*
In attesa della conversione in legge, per una prima valutazione del d.l. 4 maggio 2023, n. 48 (alias decreto Lavoro), ci si potrebbe rifare alle parole del segretario Cisl, Luigi Sbarra, che lo ha definito “un provvedimento con luci e ombre”. Fra i passaggi non particolarmente “luminosi” rientra a pieno titolo l’ennesima modifica alla disciplina del contratto a tempo determinato, contenuta all’art. 24.
Premettendo che né la disposizione in commento né il decreto nel suo complesso consentono di giustificare estemporanee affermazioni, come quelle della ministra del Lavoro spagnolo Yolanda Diaz (la quale, restando in tema, dovrebbe concentrarsi sul proprio mercato del lavoro e dei suoi quasi 5 punti percentuali in più di contratti a termine rispetto all’Italia – fonte Eurostat) circa un presunto ritorno ai “contratti spazzatura”, resta il fatto che l’intervento messo a punto dall’esecutivo presta il fianco a diverse osservazioni.
Per quel che interessa qui, l’impianto normativo regolante, nel settore privato, la grande parte dei rapporti di lavoro “a scadenza” resta nella sostanza invariato e incardinato agli artt. da 19 a 29 del d.lgs. 81/2015. In particolare, immutati sono i divieti generali (art. 20), il numero massimo di 4 proroghe (art. 21), il contingentamento dei lavoratori impiegabili (art. 23), il diritto “di precedenza” sulle future assunzioni (art. 24), così come inalterate sono tempistiche per impugnare il termine apposto al contratto e tutela della “trasformazione” a tempo indeterminato nonché l’indennizzo risarcitorio riconosciuti al lavoratore, in caso d’illegittimità dello stesso (art. 28). Conservando altresì un periodo complessivo non eccedente i 24 mesi, ciò che cambia sta nell’intenzione di superare le cosiddette “causali” introdotte, a suo tempo, dal decreto Dignità (d.l. 87/2018) ossia quelle “strette” e concrete ragioni, identificate, alternativamente, in “a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”, che l’azienda doveva dichiarare e, soprattutto, in caso di contestazione, dimostrare in giudizio allorquando intendesse prorogare oltre i 12 mesi un primo rapporto avviato con il dipendente ovvero, prescindendo dalla durata, dal secondo contratto con il medesimo instaurato.
La scelta del d.l. “lavoro” è di riformulare l’art. 19 d.lgs. 81/2015 prevedendo che l’apposizione del termine possa, invece, avvenire “a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51; b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; b-bis) in sostituzione di altri lavoratori”. Dunque una modifica che se da una parte, per individuare le ipotesi legittimanti la provvisorietà del rapporto, sembra nuovamente orientata (v. art. 23 l. 56/1987) ad affidarsi alla contrattazione collettiva anche aziendale, purché sottoscritta da almeno una delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative o dalle loro Rsa o Rsu, dall’altra, in attesa del recepimento per nulla scontato delle parti sociali, riesuma il cosiddetto “causalone”, divenuto celebre, specialmente fra gli avvocati, durante la vigenza del d.lgs. 368/2001. Infatti, all’amplissima e generica definizione “di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” ivi contenuta, era conseguito uno smisurato contenzioso (fino all’abrogazione, per numero, la prima delle questioni occupanti i tribunali – fonte Min. Giustizia): a una diffusa prassi datoriale di ripetere, nel contratto, il testo normativo o utilizzare espressioni stereotipate, senza nulla specificare sulla reale esigenza che necessitasse di assumere precariamente, la giurisprudenza rispondeva osservando come la disposizione, al contrario, imponesse l’onere di indicare “le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare” (a rinfrescare la memoria, Cass. 8068/2023).
In definitiva, un’interpretazione tesa a contrastare l’uso fraudolento della flessibilità contrattuale, dando senso ed effettività a una previsione che, intesa altrimenti, sarebbe divenuta priva di qualsivoglia sostanza e tutela per il lavoratore.
Cosicché, alla luce dell’anzidetta e tormentata esperienza, se “il diavolo sta nei dettagli”, la strana addizione testuale operata dal decreto “lavoro” potrebbe far pensare a un tentativo di salvare capre e cavoli, ossia consentire all’azienda una libera determinazione delle proprie necessità legittimanti la scadenza contrattuale e, al contempo, evitare il contenzioso. Infatti, rispetto alla norma del 2001, ai più non sarà sfuggita l’aggiunta del “individuate dalle parti”, come a sostenere normativamente che il dipendente possa in qualche modo divenire egli stesso partecipe e/o interessato alla temporaneità del rapporto e che, di conseguenza, essendo personalmente coinvolto nella definizione dei termini contrattuali, non possano residuare margini per sue future contestazioni al riguardo.
E che la prevenzione delle controversie abbia preoccupato l’esecutivo è pure confermato dalla prima bozza di decreto circolata, dove questa comune esigenza di precarietà doveva essere addirittura “blindata” da terzi e in particolare dalle commissioni di certificazione ex artt. 75 e ss. d.lgs. 276/2003.
Ora, a partire dal noto squilibrio di “forze” esistente fra datore e lavoratore, specialmente in fase di costituzione del rapporto, per arrivare all’evidenza che poco o nulla può conoscere il dipendente delle particolari necessità aziendali, quella operata dal decreto appare come una indebita e un po’ ipocrita condivisione di responsabilità. Concludendo, dopo oltre 60 anni di esperienza (l. 230/1962), tutto ci si aspetterebbe fuorché l’ennesima torbida disposizione, celante compromessi e intenzioni di dubbia praticabilità, considerando che in fin dei conti quello che si chiede è solo “di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato” (dir. 1999/70/CE), per consentire alla persona che lavora di realizzare, primo o poi, quella che in realtà, per legge (art. 1 d.lgs. 81/2015), dovrebbe rappresentare una “comune” condizione di stabilità contrattuale.
*Consulente del Lavoro e titolare dello Studio Associato Toscani-Avanzi, collabora attivamente con gli studi legali per la gestione e la risoluzione, stragiudiziale e giudiziale, delle controversie in materia di lavoro