Finti tirocini formativi orchestrati per far entrare illegalmente in Italia dei cittadini cinesi e far ottenere loro il permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Con queste accuse a Torino sono finiti alla sbarra in 25 tra professionisti, imprenditori e persone di nazionalità cinese: a sei di loro la Procura contesta l’associazione a delinquere aggravata dalla transnazionalità, mentre gli altri devono rispondere a vario titolo di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e favoreggiamento personale. Ad alcuni veniva contestato anche il falso in atto pubblico, ormai prescritto. L’indagine infatti è stata chiusa nel 2018, ma il dibattimento si è aperto pochi mesi fa davanti al Tribunale di Torino.

Il mezzo per reclutare i cittadini cinesi interessati a emigrare era l’app di messaggistica WeChat: lì secondo quanto emerso dalle indagini si concordavano le modalità dell’arrivo in Italia, gli spostamenti e l’obolo da pagare per l’intermediazione, che poteva arrivare fino a 3mila euro. A riscuoterlo come compenso per la sua attività sarebbe stata una cittadina cinese, che avrebbe agito “in sinergia” con un’avvocata di Genova incaricata di raccogliere la documentazione necessaria e compilare le false domande di tirocinio. In qualche caso la professionista avrebbe accompagnato personalmente al centro per l’impiego degli imprenditori compiacenti, i quali erano stati in precedenza reclutati da colleghi consulenti che rispondono degli stessi reati.

Il fascicolo è scaturito da una segnalazione che gli addetti del centro per l’impiego hanno inviato alla Guardia di Finanza dopo aver ricevuto diverse segnalazioni da parte delle autorità diplomatiche italiane in Cina, in cui si chiedeva di accertare la veridicità di alcune pratiche passate per le loro mani. Una delibera regionale del 2015 infatti prevedeva la possibilità per i cittadini residenti in Paesi extra Ue di fare un’esperienza di lavoro in Italia grazie a un canale privilegiato. Il consolato italiano era l’ultimo anello della filiera: la pratica veniva istruita dai Centri per l’impiego, doveva ricevere il via libera da una commissione di valutazione regionale e successivamente essere trasmessa in Cina, dove il candidato riceveva un visto di espatrio ad hoc.

Dopo la denuncia i finanzieri hanno acquisito la documentazione depositata al Centro per l’impiego, perquisito aziende e studi professionali ed estratto una mole di file archiviati nei pc degli indagati, inclusa la corrispondenza. Dalle verifiche è emerso che gran parte delle aziende candidate a impiegare i cittadini cinesi non aveva risorse sufficienti a sostenere gli oneri previsti dalla delibera regionale, che comprendevano un’indennità di partecipazione da 600 euro, il vitto, l’alloggio e le assicurazioni per infortunio e danni. La Cina in compenso non ha mai risposto alla rogatoria inviata dai magistrati italiani.

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