Ambiente & Veleni

Sulle alluvioni in Romagna non si tiene conto degli effetti delle trivelle

di Monica Valendino

Nella tragedia alluvione che ha colpito l’Emilia-Romagna si sono sottolineati molti aspetti che hanno contribuito ad amplificare un evento meteorologico già di per sé eccezionale. L’incuria dei corsi d’acqua, la cementificazione del territorio, l’uso sempre più intensivo dei terreni per uso agricolo. Però ci si dimentica un aspetto che forse viene omesso per opportunismo.

Da quando si è dato il via libera alle trivelle per estrarre il metano nel nord Adriatico (specialmente in Romagna), il terreno si è abbassato creando in talune zone anche delle depressioni. Un esempio lampante lo troviamo a Ravenna dove il mausoleo di Teodorico si è abbassato negli ultimi decenni di quasi due metri proprio a causa del continuo sfruttamento dei giacimenti sotterranei del prezioso gas.

Il territorio del Lido di Dante è poi tra quelli più colpiti dal fenomeno di abbassamento del terreno e di erosione della costa: secondo i dati Arpa del 2015, infatti, se il litorale ravennate presenta abbassamenti generalmente fino a circa 5 mm/anno, l’area costiera compresa tra il Lido Adriano e la foce del Bevano presenta una depressione più importante, facendo registrare un abbassamento pari a 20 mm/anno proprio in corrispondenza della foce dei Fiumi Uniti. Un fenomeno che colpisce tutta la fascia costiera emiliano-romagnola, ma che in questo lembo di terra, di fronte al quale è situata la piattaforma petrolifera Angela Angelina di Eni, ha degli effetti più evidenti. È ormai certo infatti che l’estrazione di fluidi dal sottosuolo – e quindi anche di idrocarburi – sia una delle cause antropiche dell’aumento della subsidenza.

Oggi nessuno ne parla, ma appare quindi chiaro che è una concausa del disastro e tra sperperi e ritardi vari è un aspetto cruciale, perché anche altre zone che “ambiscono” a ottenere il via libera per le trivelle rischiano di finire prima o poi vittime del dissesto che ne consegue. Quanto accaduto in queste ore ha quindi un fattore scatenante naturale, ma nessuna eccezionalità di pioggia può giustificare le carenze italiane nel prevenire questi eventi. Se poi aggiungiamo che, invece di rimettere in sesto i due terzi di territorio italiano ad alto rischio idrogeologico, si perdono fondi del Pnrr o si sprecano in opere di dubbio valore nazionale (palazzetti, stadi, etc.), un senso di rabbia scaturisce naturale come l’acqua che trabocca dai fiumi.

Se aggiungiamo quanto non fatto dai governi che si sono susseguiti, che hanno sempre ritenuto di non dover ascoltare gli allarmi lanciati dai geologi, allora forse sarebbe opportuno chiedersi se in questo Paese esiste una giustizia che davvero osservi se la cosa pubblica è amministrata bene. Ma la risposta già la conosciamo anche in questo caso.

Rimane il dolore nel vedere come ad ogni sciagura si susseguano sempre le stesse frasi. Oggi poi si lancia l’allarme climatico ma si sposa solo la strada “green” voluta dall’Europa di Ursula Von Der Leyen, che è solo un paraocchi per deviare l’attenzione sull’unica soluzione praticabile: un intervento mirato sul territorio e una educazione al consumismo. Perché va ricordato che dietro l’avidità nel rubare terreno alla natura c’è sempre il desiderio di soddisfare un bisogno consumistico. Se ad ogni cosa che facciamo nel quotidiano abbiniamo il quantitativo di fattori che la determinano, forse si capirebbe che la tanto biasimata “decrescita felice” è l’unico modo per cercare di convivere con una natura che, comunque la vogliamo guardare, riuscirà sempre a riprendersi i suoi spazi.

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