Mentre il ministro per il Pnrr Raffaele Fitto si prepara a presentare al Parlamento la relazione sull’attuazione del Pnrr e tenta di stringere i tempi sulle richieste di modifica per evitare di perdere tutte le rate del 2023, dalla Corte dei conti arriva una doccia gelata riguardo ai progressi nella “messa a terra” dei fondi. Stavolta, al netto delle innegabili criticità ereditate dagli esecutivi precedenti, sarà difficile dire che il governo Meloni è in carica da troppo poco tempo per poter essere chiamato in causa. La notizia, infatti, è che nei primi quattro mesi dell’anno l’Italia è riuscita a spendere, al netto dei crediti di imposta che procedono in automatico, solo 1,15 miliardi di euro. La percentuale di attuazione, ferma al 5,7% a fine 2022, è salita di un misero 0,7% arrivando al 6,4%. Di conseguenza “nell’anno in corso e nel 2024 è previsto un rallentamento della spesa rispetto alle previsioni della Nadef, rispettivamente di 7,1 e 2,5 miliardi“, attesta la Corte. Una parte dipende dall’anticipo dei crediti di imposta Transizione 4.0, il resto alla “traslazione in avanti delle spese associate a varie misure” tra cui “la riforma delle politiche attive del lavoro, l’Alta Velocità con l’Europa nel Nord, il Piano Italia a 1 Gbps e Italia 5G, il parco agrisolare”.
I numeri sono contenuti nel rapporto di 395 pagine della magistratura contabile sul coordinamento della finanza pubblica, pubblicato giovedì. L’ultimo capitolo del tomo delle Sezioni riunite in sede di controllo aggiorna i dati che erano stati inseriti nella Relazione di metà marzo. Per farlo sono state utilizzate le informazioni estratte dal sistema di rendicontazione Regis il 4 maggio. Nel complesso, le spese sostenute a partire da gennaio si fermano a 1,155 miliardi sui 33,8 programmati per quest’anno. Visto che nel frattempo la Corte ha anche rivisto al rialzo da 23,2 a 24,5 miliardi le risorse utilizzate tra 2020 e 2022, per effetto soprattutto del maggior tiraggio dei bonus edilizi, il totale sale a 25,6 miliardi. Pari al 13,4% dei 191,4 miliardi messi a disposizione dalla Ue: si registra un progresso dell’1,3% rispetto al monitoraggio precedente.
Ma, come avevano già fatto a marzo, i magistrati contabili presentano anche la spesa depurata dall’effetto di ecobonus, sismabonus e crediti di imposta per beni strumentali e formazione 4.0. Quelle sono misure il cui avanzamento dipende dalla domanda dei privati, dunque non dicono nulla della capacità delle amministrazioni di spendere i soldi. Per valutare se la pa sia in grado di imprimere l’accelerazione che a questo punto sarebbe necessaria per recuperare terreno (vedi il grafico sotto che mostra la programmazione aggiornata), è più significativo osservare come è andato l’utilizzo delle risorse distribuite attraverso bandi. Così facendo “il tasso di progresso nell’attuazione finanziaria del Piano scende al 6,4%”. Considerato che a fine 2022 era al 5,7% (dato a sua volta rivisto a ribasso, la stima di marzo era del 6%), il progresso è stato solo dello 0,7%.
Che progressi ci sono stati in corso d’anno? Per quanto riguarda le infrastrutture – la missione che fa capo al ministero di Matteo Salvini, che continua a ripetere come l’intenzione del governo sia “spendere bene tutti i soldi del Pnrr che l’Unione Europea ci dà in prestito” – nessuno, stando al rapporto: la spesa sostenuta nel 2023 è stata pari a zero e quella da inizio piano rimane dunque inchiodata a 4,2 miliardi, con una percentuale di attuazione del 16,7%. Poco più di 190 milioni sono invece stati impiegati per Digitalizzazione e competitività, che arranca con un’attuazione del 5%, e altrettanti per Istruzione e ricerca, ferma al 4,7%. Solo 2,2 milioni per la Rivoluzione verde, attuata per il 5,3%. In affanno ancora peggiore la missione Salute, per cui la spesa è avanzata di 15,5 milioni nel 2023 ma arrivando a un totale di soli 111,2, cioè lo 0,7% degli stanziamenti previsti. La performance migliore la registra la missione 5, Inclusione e coesione, con 749 milioni spesi nel 2023, ma anche qui l’attuazione non supera il 5%. Nella relazione, va sottolineato, non c’è traccia dei dubbi dell’Anci riguardo alla completezza dei dati inseriti in Regis, che secondo i Comuni sarebbero incompleti e restituirebbero quindi un quadro non aggiornato dello stato di avanzamento del piano.
La domanda da farsi a questo punto è se gli interventi decisi dall’esecutivo sul fronte della governance e delle procedure amministrative con l’obiettivo di velocizzare la messa a terra siano sufficienti per uscire dall’impasse. La Corte scrive di apprezzare la possibilità di anticipare le stabilizzazioni del personale assunto a termine e in servizio per almeno 15 mesi e di assumere altro personale attingendo alle graduatorie in corso di validità, ma ribadisce che bisogna “evitare che le procedure di stabilizzazione si traducano in meccanismi automatici di ingresso e garantendo che gli schemi selettivi rappresentino l’occasione per la valorizzazione del lavoro medio tempore svolto dal personale”. Promosso invece il rafforzamento dei poteri sostitutivi dello Stato in caso di inadempienza dei soggetti attuatori e le semplificazioni su conferenza dei servizi, realizzazione delle infrastrutture per la banda ultra-larga, edilizia scolastica, ambiente ed energia, trasporti e beni culturali.
In un’altra parte del documento la Corte riporta le simulazioni effettuate dai centri di ricerca Cer, Prometeia e Ref sulla spinta del Pnrr al pil. La stima iniziale del Tesoro nel 2021 era di un +3,6% a fine piano, nel 2026. I nuovi profili di andamento della spesa e i cambiamenti del quadro macroeconomico portano a ridurre la previsione: gli istituti utilizzando i loro modelli valutano un impatto dell’1,6% nel 2023 che sale all’1,8% nel 2025 e si attesta all’1,7% a fine periodo. Stime che si collocano in una fascia “prudenziale”, si legge nel rapporto, “ma non distante dalle stime dei soggetti istituzionali, se considerate al netto degli effetti di offerta e incorporando il relativo depotenziamento che deriva dalla maggiore inflazione“.