Nonostante sia stata condannata dalla Corte europea per i Diritti dell’uomo nel 2012 e nonostante sentenze di Cassazione e tribunali abbiano ribadito oltre ogni ragionevole dubbio che la Libia non può essere considerata paese sicuro, l’Italia sembra essere coinvolta nell’ennesimo respingimento di migranti. E’ già accaduto in questi mesi e pare sia accaduto anche nelle ultime ore. Sono 27 le persone coinvolte (nella foto), partite da Bengasi su un’imbarcazione in vetroresina e recuperate in acque internazionali nel Mediterraneo centrale nella notte tra il 24 e 25 maggio, in un’area esterna al controllo delle autorità di Tripoli e della sua Guardia costiera. Di ieri la richiesta di soccorso partita dai 27 a bordo, rilanciata dalla ong Alarm Phone e confermata dall’aereo da ricognizione Seabird della organizzazione Sea Watch. Che poco fa ha twittato: “Dopo quasi due giorni senza soccorsi sono state tratte in salvo dalla petroliera P LONG BEACH che ora sta compiendo un respingimento illegale in Libia coordinata dalle autorità italiane”.
La ricostruzione dalla ong Mediterranea Saving Humans: “In queste ore la nave mercantile P.Long Beach sta deportando di nuovo nell’inferno dei campi di detenzione della Libia 27 persone, recuperate in acque internazionali nel Mediterraneo centrale nel corso della notte appena trascorsa”, ha denunciato il capomissione dell’organizzazione, Luca Casarini. “Ricevuto l’allarme, Alarm Phone aveva immediatamente rilanciato l’sos alle autorità europee, Italia e Malta, chiedendo un tempestivo intervento. La posizione è poi stata riconfermata alle autorità dal velivolo Seabird di Sea-Watch. Ci risulta – continua Mediterranea – che il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma abbia assunto il coordinamento del caso e abbia diretto sulla posizione indicata più di una nave mercantile”. Tra queste anche la P. Long Beach, petroliera che batte bandiera delle Isole Marshall, gestita da armatori greci e proveniente dal porto di Trieste, dove scarica idrocarburi provenienti proprio dalla Libia. Ma anche la Humanity1 della ong SOS Humanity, che continua a seguire le comunicazioni e poi si mette in contatto con la petroliera, per chiedere conferma del recupero delle 27 persone. “Sì signore, abbiamo già effettuato il soccorso”, rispondono dalla petroliera. A quel punto il comandante della Humanity1 chiede dove intendono portarli. “Stiamo andando in Libia, signore, sì, in Libia”. Segue l’esortazione del capitano della nave ong: “Posso per favore chiedervi si non portarli in Libia? Se lo fate violate il diritto del mare e agite in violazione i diritti umani”. L’appello, riferisce la ong, sarà ripetuto più volte.
Secondo il diritto internazionale, a partire dalle Convenzioni di Amburgo e Ginevra, i tratti in salvo non possono che essere condotti verso un porto in un Paese sicuro, dove non sia a rischio la loro incolumità e così i loro diritti fondamentali. Al contrario, la petroliera coordinata dalle autorità italiane ha diretto “verso il porto libico di Marsa Brega“, nell’area della Cirenaica controllata dagli uomini del generale Haftar. “Si tratta di una gravissima violazione del diritto internazionale, di una vera e propria deportazione che sta avvenendo con la diretta complicità delle autorità italiane”, denunciano le ong, che hanno ripetutamente chiesto al MRCC di Roma che ha coordinato l’operazione SAR (Search and rescue) di ordinare “immediatamente alla P. Long Beach di invertire la rotta e di sbarcare le persone in un porto sicuro europeo”. E così hanno fatto anche con il comandante e l’armatore della petroliera perché non si rendessero “responsabili di un crimine contro queste 27 vite. Siamo già pronti a qualsiasi azione legale a difesa dei diritti di queste 27 persone”, ha scritto Mediterranea.
In serata è uscito un comunicato della Guardia costiera italiana che respinge ogni accusa. “Il Centro di coordinamento e soccorso marittimo di Roma, nella notte scorsa ha cooperato, conformemente a quanto previsto dalle vigenti Convenzioni internazionali sul soccorso marittimo, con l’omologo Centro di coordinamento marittimo della Guardia costiera libica, nell’ambito di un evento occorso all’interno dell’area di responsabilità di quel Paese. Le unità mercantili coinvolte in questa attività di soccorso, sebbene inizialmente contattate dal Centro di soccorso italiano, hanno successivamente ricevuto le istruzioni direttamente dalle autorità libiche, competenti per il soccorso marittimo in quell’area, che ne ha, pertanto, legittimamente assunto il coordinamento”, si legge nel comunicato della Guardia costiera, che conferma dunque il respingimento ma non si assume responsabilità se non per un iniziale “contatto” delle unità mercantili nell’area. Nel video pubblicato da Sea Watch in cui la ong comunica con la petroliera (qui sopra), la stessa riferisce che gli ordini li ha presi solo dalle autorità italiane. E che contatti con le autorità libiche, fino a quel momento, non ce ne sono stati.
Per sapere cosa rischiano comandante e armatore della petroliera, ma anche l’Italia (nel caso il coordinamento non abbia evitato lo sbarco in Libia o nel caso l’abbia addirittura ordinato), basta guardare alle sentenze emesse dai nostri tribunali. Una per tutte, quella sul rimorchiatore Asso 28, in cui i giudici di Napoli hanno condannato il comandante per aver sbarcato i naufraghi soccorsi in Libia. La vicenda risale al 30 luglio 2018, quando il rimorchiatore della società armatrice Augusta Offshore, operativo presso la piattaforma Sabratha della società petrolifera Mellitah Oil & Gas, aveva soccorso un gommone segnalato dalla stessa piattaforma e riportato un centinaio di migranti in Libia. Le 101 persone intercettate in acque internazionali, tra cui donne e bambini, furono sbarcate a Tripoli per poi finire nuovamente detenute. Lo scorso novembre la Corte d’Appello ha confermato la decisione del tribunale di Napoli che aveva condannato il comandante per “sbarco e abbandono arbitrario di persone”, di cui all’art. 1155 del codice di navigazione, e di “abbandono di minore” di cui all’art. 591 del codice penale. Nonostante tutto, convenzioni internazionali comprese, un’operazione di soccorso coordinata dalle autorità italiane sembra trasformarsi ancora una volta in un respingimento illegale.