Studi internazionali ed evidenze empiriche raccolte dagli economisti non sono sufficienti a smuovere di un millimetro le convinzioni di Matteo Salvini in campo fiscale. Messo alle strette dalle continue stroncatura delle ricette leghiste per la crescita, il vicepremier e ministro delle Infrastrutture parlando in collegamento video all’assemblea di Conflavoro ha sostenuto che “la flat tax checché ne dica la Commissione europea funziona ovunque sia applicata”. Bruxelles, nelle raccomandazioni-Paese pubblicate mercoledì ha espresso molti dubbi sull’approdo alla tassa piatta per tutti previsto nella delega fiscale perché rischierebbe di ridurre la progressività e dunque l’equità (oltre che l’efficienza) del sistema. Ma lo staff della direzione generale Affari economici non ha fatto che ribadire alcuni dei punti fermi elencati pochi giorni prima, in audizione alla Camera, dal capo del Servizio assistenza e consulenza fiscale della Banca d’Italia Giacomo Ricotti. Perché sono le esperienze dei Paesi che applicano la tassa piatta a dire che scegliere quel modello non porta con certezza nessuno dei vantaggi attesi dai sostenitori.
Via Nazionale ha ricordato che al momento sono rimasti solo 14 gli Stati che applicano un’unica aliquota sui redditi delle persone fisiche: Armenia, Belize, Bolivia, Estonia, Guernsey, Jersey, Kazakistan, Kirghizistan, Macedonia del Nord, Moldavia, Romania, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan. La Russia l’ha abbandonata nel 2020. I sostenitori di quella forma di prelievo sono convinti che porti molti effetti positivi una maggior crescita economica, la capacità di autofinanziarsi come conseguenza dell’aumento del pil (“effetto Laffer”), la riduzione dell’evasione fiscale e la semplificazione amministrativa. Ma tutti gli studi pubblicati fino a oggi “non portano a conclusioni univoche e concordanti”. Per quanto riguarda l’incentivo alla crescita, le evidenze sono limitate all’aumento dell’occupazione regolare in alcuni paesi (Estonia e Slovacchia), che “almeno in parte” dipenderebbe dalla flat tax in quanto fattore di riduzione del costo del lavoro, ma in altri Stati (Repubblica Ceca) non si sono registrati effetti significativi. E soprattutto “limitati incrementi di produttività sarebbero stati riscontrati nel maggior paese che ha adottato tale imposta, la Russia”.
Gli effetti sul gettito sono “di segno opposto” nei diversi Paesi e “incerto” è il ruolo della flat tax nella riduzione dell’evasione: in alcuni casi – “una minoranza” – si sono registrati aumenti di gettito conseguenti a riduzione dell’attività sommersa, anche se a volte non permanenti, ma “restano dubbi sul fatto che siano da ricondurre alla flat tax e non ad altri fattori, quali iniziative più ampie sul costo del lavoro, un clima più favorevole alle imprese o altri interventi di carattere tributario”. Ma almeno, si dirà, il sistema fiscale ne esce semplificato. No: “Molti sistemi flat mantengono minimi esenti, deduzioni e detrazioni, che costituiscono un elemento di complicazione non dissimile da quello connesso con una pluralità di scaglioni e aliquote”. Inoltre, “la complessità di un sistema tributario non può essere valutata con riferimento a una sola imposta, per quanto rilevante per numero di contribuenti e “visibilità impositiva””.
Dalla lettura degli studi empirici emerge un solo punto fermo: “L’unico argomento su cui le ricerche mostrano una certa convergenza“, come ha spiegato Ricotti, “è quello a sfavore della flat tax, ovvero le conseguenze su redistribuzione e disuguaglianza“. Effetti negativi su questi due aspetti sono “stati accertati in alcuni paesi, come la Bulgaria. In altri, come l’Estonia o la Slovacchia, sono stati evitati o attenuati dall’ampliamento di minimi esenti, deduzioni o detrazioni, personali e di spesa, non senza però un costo per l’erario e al prezzo di allontanarsi sensibilmente dal modello base della flat tax”. Sipario.