Soltanto fino a qualche decennio or sono, le immagini dell’alluvione in Emilia-Romagna che sono comparse sugli schermi mediatici, e che si sono aggiunte ad una serie sempre più serrata di analoghi eventi, apparivano confinate in parti lontane del globo, soprattutto in quel sud-est asiatico storicamente tormentato da fenomeni meteorologici estremi, percepiti come una sorta di maledizione estranea alla causalità umana. L’ ‘isola dell’occidente’ appariva come un’oasi risparmiata dalla natura matrigna.

Anche le malattie infettive sembravano ormai confinate in un passato remoto sconfitto grazie a vaccini e antibiotici, e ben altri rischi sanitari si ponevano all’attenzione dei servizi sanitari dei cosiddetti Paesi sviluppati. La prima tangibile avvisaglia che le cose non stavano esattamente in questo modo l’abbiamo avuta all’inizio degli anni Ottanta con la diffusione dell’Aids, poi l’encefalopatia spongiforme bovina ribattezzata “mucca pazza” dai media, mentre la sentenza definitiva è arrivata con la pandemia da Covid-19, in realtà preceduta da quelle sempre più ravvicinate dei virus influenzali. Tutte originate da quel “salto di specie” di cui forse il virus del morbillo è stato il primo esempio storico noto.

Non è quindi più vero che le malattie infettive abbiano ceduto il passo alle cosiddette cronico-degenerative. Si stanno ahinoi semplicemente aggiungendo e riconoscono la medesima ‘causa prima’ delle altre che dà il nome all’epoca che stiamo vivendo (antropocene), caratterizzata dagli effetti prodotti da una attività umana che ha considerato la natura come fonte inesauribile e gratuita di risorse ad essa dedicata.

Invece è arrivato il conto da pagare, cui appartiene anche l’alluvione dell’Emilia-Romagna che immediatamente, insieme ai danni fisici provocati a persone e cose, ha portato di nuovo alla ribalta l’anacronistico rischio infettivo. Nei comunicati della ASL compare la preoccupazione per il tetano, una malattia ormai catalogata in Europa tra quelle rare, per non parlare delle infezioni gastro-intestinali simil-tifoidi dovute al rimescolamento e dispersione delle acque reflue fognarie, del drenaggio dei concimi animali dai terreni, nonché della saturazione dei sistemi di trattamento delle acque che potrebbero anche minacciare la catena alimentare. E poi l’impatto prodotto dal coinvolgimento degli allevamenti intensivi con cadaveri di animali e liquami notoriamente infetti, come documenta l’uso massiccio di antibiotici nel comparto. Si teme anche il rischio di leptospirosi, una zoonosi per di più di origine professionale, indotta dall’urina infetta dei topi che insidiano soprattutto i maiali.

L’acqua stagnante che non si riesce a drenare con sufficiente rapidità favorisce all’ennesima potenza la proliferazione di microrganismi patogeni e, quando arriverà il caldo, il terreno ritornato paludoso, come in origine si presentava questo territorio, diventerà terreno di coltura per insetti di ogni genere. Insomma, una tragica beffa alla modernità.

La ricerca scientifica si è sempre interessata del rapporto alluvioni/salute e più recentemente si è rivolta anche a ciò che accade sempre più spesso nei Paesi occidentali, come documentano revisioni sistematiche di letteratura e similari (Flood-induced mortality across the globe: Spatiotemporal pattern and influencing factors, Science Total Environment, 2018 Dec 1;643:171-182). Accanto a quanto già richiamato, nelle abitazioni alluvionate si segnalano rischi per la salute legati alla crescita di muffe e spore che possono formarsi anche diversi giorni dopo l’evento calamitoso a seguito del permanere dell’umidità sulle superfici interne degli edifici. Reazioni allergiche su cute e mucose, difficoltà respiratorie fino a proprie e vere crisi asmatiche sono correlate a queste conseguenze.

Ma non solo questa tipologia di effetti immediati viene descritta. Si presentano anche esiti a più lungo termine che coinvolgono la salute mentale di chi ha assistito impotente a gravi perdite affettive e materiali, quali ansia e depressione che richiedono trattamenti sanitari. Incrementi della mortalità in queste popolazioni per cause cardio-circolatorie e diabete sono documentati in correlazione a condizioni di stress post-traumatico in grado di innescare, attraverso noti meccanismi neuro-endocrini, aumenti della pressione arteriosa e della glicemia.

Evidenza accertata, come per altro accade in occasione di tanti altri eventi acuti, è l’effetto moltiplicatore che si realizza per i danni alla salute occorsi nelle popolazioni di basso livello socio-economico, a testimonianza che questa diseguaglianza trascina sempre con sé ogni altra sorte di svantaggi che segnano profondamente la quantità e la qualità della vita, come tanti studi documentano.

Tuttavia mentre le stime dei danni materiali di natura economica appaiono molto precise, altrettanto non si può dire per quelli sanitari, soprattutto a lungo termine, che richiederebbero studi epidemiologici longitudinali di coorte, cioè in grado di identificare precisamente gli individui che compongono la popolazione a rischio (di norma ma non sempre esattamente coincidente con quella residente) e di accertarne nel tempo tipologia e frequenza di patologie insorte nel confronto con quelle di analoghe popolazioni non esposte al rischio in studio e con quanto precedentemente occorso nella medesima popolazione colpita dall’evento.

Il monitoraggio nel tempo della mortalità e morbosità della popolazione residente non è adeguato, perché la popolazione residente non è stabile e quella a rischio, proprio per le conseguenze indotte dal medesimo, può migrare altrove, determinando “evidenze paradosso” per cui le condizioni di salute di territori danneggiati risulterebbero migliori di quelli di confronto.

In Italia però, in particolare nelle regioni del centro-nord come l’Emilia-Romagna, si dispone di flussi informativi digitalizzati di buona qualità e completezza che rendicontano tutte le prestazioni sanitarie offerte in regime di servizio sanitario nazionale, a partire dai ricoveri ospedalieri e dalle prestazioni di pronto soccorso.

E’ auspicabile quindi che venga promosso, accanto a tempestivi interventi in grado di affrontare l’immediatezza dei problemi, anche questo tipo di studi, perché la prevenzione dei danni futuri molto si nutre delle conoscenze che provengono dalle esperienze pregresse. Sappiamo tutti molto bene che questo passaggio non è purtroppo automatico, anzi, ma costituisce comunque il presupposto necessario che servirà ai sopravvissuti delle nuove generazioni.

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