Ha quasi trenta anni il libro Intelligenza Emotiva di Daniel Goleman che ha rappresentato una vera e propria rivoluzione per il mondo del business. Ma quanti danni che, inconsapevolmente, ha creato soprattutto nel mondo della piccola impresa deviandola verso una interpretazione sbagliata delle sue teorie! In quel libro per la prima volta, infatti, venivano evidenziate ricerche scientifiche accurate che dimostravano ciò che si sperava fosse vero, ovvero che l’empatia, le capacità relazionali, il governo delle emozioni fossero più importanti delle mere competenze tecniche.
Chi lavora all’interno soprattutto delle piccole imprese sa bene che questi ingredienti sono una merce rara. È molto più facile incappare in persone (e in capi) arroganti, egocentriche, poco inclini alla comunicazione e con emozioni talvolta fuori controllo. Sapere, quindi, che l’intelligenza emotiva rappresenta la base per il successo personale e l’eccellenza organizzativa appariva come una vera e propria rivincita su tutto ciò che in azienda spesso era assente, oltre che una speranza di miglioramento del clima di lavoro.
Il grande merito di Coleman è stato, quindi, quello di sdoganare definitivamente le “competenze soft” dal loro ruolo ancellare all’interno delle imprese e di far entrare a pieno titolo le emozioni tra gli aspetti di assoluta rilevanza nel lavoro.
Il successo del libro si è, però, presto trasformato nel mondo della piccola imprenditoria in (limitati) investimenti formativi basati solo sullo sviluppo dell’intelligenza emotiva e in progetti di riorientamento dello sviluppo professionale dei propri collaboratori-familiari. Pochi investimenti ma solo ed esclusivamente basati sulle soft skills. L’equazione alla base di questa decisione era molto semplice: se l’intelligenza emotiva porta al miglioramento delle performance individuali, sviluppiamo queste competenze in tutti i collaboratori e avremo un sicuro ritorno economico.
Nella realtà, però, raramente si è ottenuto un risultato pari alle aspettative. Questo non perché le argomentazioni di Goleman non siano corrette, quanto piuttosto per il fatto che all’interno delle aziende, in particolare nelle pmi, i fabbisogni formativi sono assolutamente eterogenei e diversificati. Ma soprattutto perché si è puntato sullo sviluppo delle competenze emotive di persone che ricoprivano ruoli organizzativi per i quali erano privi di competenze tecniche di base o delle informazioni operative per svolgere al meglio le proprie mansioni.
È evidente che se non si conosce come svolgere il proprio lavoro, il miglioramento delle doti empatiche non porta molto lontano. Anche se è vero, come afferma lo stesso Coleman, che la mancanza di intelligenza emotiva ostacola l’uso dell’expertise tecnica, altrettanto sacrosanto è che una bassa expertise tecnica possa ostacolare l’uso dell’intelligenza emotiva.
Un aspetto finale che vorrei inoltre sottolineare riguarda il fatto che, come Goleman giustamente sottolinea, molti sono saliti al vertice delle imprese pur in mancanza di competenze emotive. Per l’autore questa situazione sembrava essere una sorta di retaggio di un passato che non sarebbe dovuta esistere più, perché nella complessità del mondo di domani (oggi) la collaborazione tra le persone, la flessibilità e le relazioni interpersonali avrebbero fatto la differenza tra le imprese di successo e quelle mediocri. Secondo Goleman solo leader dotati di grande intelligenza emotiva avrebbero potuto, quindi, guidare le imprese di successo.
L’esperienza mi ha dimostrato che Goleman si è sbagliato (anche se mi piacerebbe moltissimo che fosse rispettato in futuro). Penso che in questi anni e anche in futuro sono stati e continueranno a salire al vertice, soprattutto nelle imprese familiari, persone prive di intelligenza emotiva. Tralaltro ottenendo, talvolta, anche ottimi risultati.
E’ capitato ma la vera differenza poi si riscontra nella sostenibilità di questi risultati. I leader imperscrutabili, arroganti, privi di doti empatiche e di capacità relazionali forse potranno addirittura raggiungere la vetta più velocemente di quelli competenti emotivamente. D’altra parte, la legge della frusta per ottenere un’accelerazione repentina delle performance funziona ancora benissimo (anche nella complessità odierna). Se però siamo alla ricerca del mantenimento di alte performance e della crescita di competitività prospettica dell’organizzazione, ci accorgeremo presto che questa tipologia di leader non è in grado di governare la crescente complessità dei contesti relazionali e organizzativi in cui, oggi più che ieri, opera.