dell’avv. Bartolo Mancuso
Dopo i furbetti del cartellino, i malati immaginari, gli scioperanti del venerdì, La Repubblica on line ha creato i “Furbetti della Naspi”. Vediamo chi sono.
Il primo maggio il Consiglio dei Ministri, insieme al Decreto Lavoro, ha approvato un Disegno di Legge che dovrà passare il vaglio delle Camere. La bozza del ddl prevede che il lavoratore che risulti assente ingiustificato per almeno 5 giorni (o per il diverso numero di giorni previsto dal Ccnl per giustificare il licenziamento) verrà considerato dimissionario. La disposizione è stata proposta per arginare il fenomeno dei lavoratori e delle lavoratrici che cessano di andare al lavoro senza però formalizzare le dimissioni. Sarebbero furbetti perché perseguirebbero l’obiettivo di ottenere dall’Inps l’indennità di disoccupazione (la Naspi appunto) che si percepisce in caso di licenziamento, e non nel caso di dimissioni.
Siamo in presenza di un nuovo luogo comune creato con l’obiettivo di denigrare i lavoratori ed esaltare le imprese, giustificando così le bastonate ai primi e i favori alle seconde.
Ma come nel passato, la verità è un’altra. Per tanti anni abbiamo conosciuto il problema delle “dimissioni in bianco”, cioè consegnate in costanza di rapporto in modo che il datore potesse apporre la data nel momento in cui decideva di “dimissionare” il lavoratore. Per impedire questa piaga dal 2012 l’ordinamento impone la formalizzazione delle dimissioni tramite trasmissione telematica all’Inps e al Ministero del Lavoro.
Il nuovo sistema ha avuto il pregio di intervenire in parte anche su un’altra criticità. Capita che il datore, il quale voglia liberarsi di un dipendente, ad esempio per sostituirlo con uno meno costoso, lo induca a dimettersi invece di provvedere al licenziamento, al fine di evitare alla radice un eventuale contenzioso e per risparmiare il ticket licenziamento di circa 1500 euro. Ovviamente il modo per indurre un lavoratore alle dimissioni è rendergli la vita impossibile.
È evidente che il governo Meloni, con la disposizione normativa in discussione, intende colpire implicitamente proprio il diritto del lavoratore di dimettersi solo tramite una volontà espressa. Si comprende questa finalità, però, solo si esplicita – e si concorda – sul punto di fondo: in Italia si lavora male. Si guadagna poco, si muore sul lavoro, si rimane precari a vita. Inoltre l’abbassamento delle tutele fondamentali, come il diritto alla reintegra nel caso di licenziamento ingiusto o il divieto assoluto di demansionamento, insieme alla denigrazione continua di chi lavora, hanno agito anche sul terreno simbolico preparando il terreno per atteggiamento vessatori.
Quindi, tornando al punto, perché alcuni lavoratori smettono di recarsi al lavoro senza formalizzare la dimissioni? Semplice, perché non vogliono dimettersi. Vorrebbero solo lavorare dignitosamente. Del resto, quanto detto fa il paio con l’aumento del numero delle dimissioni registrato negli ultimi anni, a volte letto in chiave individualista come ricerca di nuove possibilità di vita, ma che non è altro che la conferma del “mal di lavoro” che attanaglia il Paese. Se questo è il quadro, abbiamo la conferma di quanto emerso dal Decreto Legge del primo maggio, ovverosia che il governo Meloni continua il progetto liberista degli ultimi trent’anni (la liberalizzazione dei contratti a termine è la prova più eclatante), con l’aggiunta di una torsione autoritaria volta ad indebolire i lavoratori nel rapporto con il datore. E il titolo di Repubblica denota quantomeno una miopia di quel mondo politico e culturale nel leggere la situazione attuale.
Occorrerebbe agire in tutt’altra direzione, invertendo la tendenza in atto, per garantire nuovamente un lavoro dignitoso, con l’introduzione di diritti che fermino la precipitazione del salario (come ad esempio la parità di trattamento dei lavoratori degli appalti rispetto ai dipendenti del committente) e rafforzino i lavoratori nei posti di lavoro, ad esempio sottraendoli dal ricatto del licenziamento senza possibilità di reintegrazione.