Oggi vi parlo di selfie. Anzi, più precisamente di foto scattate nei luoghi di raccoglimento, luoghi pregni di orrore, luoghi dove si dovrebbe stare in silenzio a riflettere.

Non mi riferisco in questo istante a coloro che, affetti da cretinismo acuto, si mettono in posa sulle rotaie che veicolavano i treni dei deportati a Auschwitz, ma a due giovani, tenere e ignare fanciulle, che si sono fatte qualche foto in posa e a boccuccia davanti all’immagine dell’isola degli arrusi. Poteva sembrare una cartolina retrò delle Tremiti e quindi, perché non farsi uno scatto-ricordo durante la gita scolastica? Vi racconto meglio la storia.

“L’isola degli arrusi” potrebbe essere il titolo di un film di Giuseppe Tornatore e invece è un percorso espositivo e fotografico che fa conoscere una triste storia sugli omosessuali arrestati e confinati durante il fascismo. Sono capitata per caso a Palazzo d’Accursio, un giorno in cui a Bologna, la mia Bologna e tutta la Romagna, stavano subendo una catastrofe alluvionale.

Entrando per caso nella sala che ospita questo toccante percorso curato dalla bravissima Luana Rigolla, non avevo capito nemmeno di cosa si trattasse. Un’immagine di uno speculum a sinistra, una serie di ritratti maschili in bianco e nero a destra. Ovviamente avevo sbagliato direzione descrittiva e arriverò a spiegarvi.

Erano definiti arrusi o jarrusi gli omosessuali di Catania che durante il fascismo furono deportati a San Domino. Nel 1939 quarantacinque di questi uomini – definiti pederasti passivi e quindi accusati di reato non essendo “maschi” – furono confinati. Avevano dai 18 ai 54 anni. I loro visi a poster, in bianco e nero, impressionano per bellezza e sguardo fiero. Sono scatti delle fototessere che attestavano l’arresto: età, altezza, peso, impronte digitali, misure del membro.

Dal sito del comune di Bologna, dove si trovano anche le informazioni relative alla mostra, si legge: “Dopo l’approvazione delle leggi razziali, gli omosessuali vennero perseguitati dal regime fascista con l’accusa di ‘pederastia passiva’, un reato contro il buon costume e l’integrità della razza. Il progetto di ricerca fotografica di Luana Rigolli racconta le vicende dei confinati omosessuali tra archivi, luoghi, paesaggi, documenti, immortalando i volti degli arrusi, le schede biografiche delle autorità, le suppliche dei familiari, i luoghi della loro vita a Catania e del confino a San Domino, gli strumenti delle visite mediche e delle punizioni“.

Lo speculum anale è impressionante: dopo l’arresto gli arrusi erano sottoposti a visite mediche invasive per individuare la presenza di malattie veneree e per attestare le loro pratiche sessuali. A proposito di sessualità e di nazifascismo, ho appena finito di leggere I bordelli di Himmler (Mimesis ed.), scritto da tre giovani storici con esperienza nel campo espositivo. Anche qui descrizioni raccapriccianti sulle politiche antiomosessuali e gli esperimenti per verificare l’effettiva omosessualità degli uomini. “Queste teorie popolari al tempo della follia razzista si basavano sulla dottrina psichiatrica della degenerazione, costituita da una amalgama di argomentazioni ‘dell’igiene razziale’ (omosessualità=tare ereditarie) e dell’antropologia razziale (omosessualità come segno distintivo di un gruppo etnico “inferiore”)”.

Il libro è un’analisi accurata di quello che furono il sesso, il sistema concentrazionario e la persecuzione nell’ideologia nazista. La schiavitù sessuale nei campi di concentramento divenne, con la fine della guerra, oggetto di un vero e proprio tabù. Accanto al dolore del ricordo, che spinse al silenzio numerose vittime della violenza nazista, queste donne continuarono a tacere soprattutto perché avevano subìto stupri, e perché temevano di essere per questo stigmatizzate e discriminate.

Dopo Dachau ho deciso che andrò a visitare Ravensbrück, campo di concentramento femminile da cui fu scelta la maggior parte delle schiave sessuali destinate agli “edifici speciali” (bordelli) istituiti da Himmler dal 1941 per incentivare la produttività dei lavoratori forzati. Queste povere ragazze – scelte in modo umiliante per bellezza e giovane età – dovevano sopportare anche quaranta rapporti sessuali al giorno. La speranza, promessa e mai mantenuta, era la libertà. Molte, dopo pochi mesi, tornavano nei lager massacrate dentro e fuori. Psicologicamente a pezzi. Ne morirono tante per le conseguenze degli esperimenti medici e altre furono uccise in quanto “inadatte al lavoro”.

Concludo tornando ai selfie e alle due studentesse in posa davanti alla foto vintage dell’isola di San Domino. Ho spiegato loro che la mostra era un toccante viaggio storico su quello che fu la persecuzione degli omosessuali. E che a quei tempi, chi era gender fluid – tanto per farmi capire meglio – veniva torturato, confinato, ucciso. Mi hanno chiesto scusa, stupite e mortificate. Le avrei abbracciate.

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