Si sente dire spesso e correttamente che quella dei Corleonesi di Riina e Provenzano fu una “anomalia” nella storia di Cosa Nostra. Una anomalia tragica costata la vita a decine di persone, colpite da quella violenza terroristico-mafiosa che devastò anche Firenze nella notte tra il 26 e il 27 maggio, annientando la famiglia Nencioni e uccidendo Dario Capolicchio. Vero, ma sono ormai convinto che questa “anomalia” (che tale resta in relazione alla secolare condotta di Cosa Nostra) non si spieghi soltanto con la ferocia di Riina e compagni, ma anche (se non soprattutto) col contesto della “Terza guerra mondiale”, passata alla storia come Guerra Fredda e successivamente col contesto di quello che chiamerei “Terzo dopoguerra italiano”, il periodo che comincia con il 1989 e finisce con il 1994. Il “Terzo dopoguerra” dispiega i suoi effetti tutt’oggi.
Cosa Nostra, ma anche ‘ndrangheta e camorra, hanno avuto un ruolo nella conduzione della Terza guerra mondiale. Questo, se è ormai pacificamente accettato pensando alla strage di Portella della Ginestra, alla morte di Enrico Mattei (quanto è attuale la sua storia!), al “Boia chi molla!” di Reggio Calabria o al sequestro Cirillo in Campania, non è ancora accettato come dovrebbe per altri fatti, come l’avvento stesso dei corleonesi e la “mattanza” dei primi anni ’80 che spazza via la vecchia nomenclatura mafiosa, diventata troppo ingombrante e ingovernabile a seguito della vicenda Moro – come dimostrò l’omicidio di Piersanti Mattarella.
Tanto è più dura una guerra, tanto più grande, quando finisce, è l’eredità di odio, di rancori e di aspettative che i vincitori devono decidere se e come soddisfare, usare oppure soffocare.
La Terza guerra mondiale è durata più di quarant’anni e quindi non è difficile immaginare quanto imponente sia stata l’eredità da gestire. Una eredità che riguardava reduci molto diversi tra loro (estremisti rossi e neri, uomini e donne di apparati, militari, politici, imprenditori, mafiosi…), ma tutti accomunati dall’aver contribuito a conservare il blocco di potere che ha garantito all’Italia di arrivare alla meta con le carte in regola. Reduci impegnati per anni a fare il lavoro sporco perché l’Italia non “deragliasse”, e che mai avrebbero potuto accettare di finire ammazzati, dimenticati oppure sul banco degli imputati. Imputati da magistrati troppo ligi alla legalità e troppo avulsi dal potere che viene prima della legalità.
Non dimenticherò mai una conversazione cui ebbi la fortuna di partecipare tra un ex presidente della Repubblica e un ex procuratore della Repubblica, nella quale il primo sostenne senza alcuna esitazione che pensare di processare penalmente Andreotti era stata una boiata pazzesca e che semmai Andreotti avrebbe dovuto essere giudicato esclusivamente sul piano politico. Proprio quell’Andreotti, campione della Terza guerra mondiale, che più di ogni altro aveva dato il segnale di smobilitazione, ammettendo in parlamento l’esistenza di Gladio sul finire del 1990. Apriti cielo!
A nessuno piace essere messo in un angolo, non soltanto a “Baby”. La gestione del Terzo dopoguerra è stata drammatica, tra vendette, ricerca affannosa di nuove garanzie e ostacoli posti da quei talebani della legalità. Quando diciamo che le stragi del 1993 non sono state soltanto stragi di mafia, non sappiamo dire di preciso chi altri intervenne nel guidare la mano mafiosa, nel moltiplicarne il tritolo, nel far sparire prove e documenti (siamo il Paese delle “colpe” senza “colpevoli”). Ma possiamo capire almeno il perché non furono stragi soltanto di mafia, quale posta fosse in gioco. E oggi possiamo dire che con ogni probabilità furono proprio i mafiosi a pagare il conto più alto finendo arrestati, processati e condannati, tutti, fino al noto playboy di Castelvetrano.
Nessun rammarico, per carità. Ma il prezzo che abbiamo pagato e che pagheremo per l’esito nefasto di questa grande trattativa lo si misura oggi tanto nell’astensionismo elettorale quanto nella diffidenza che tanti giovani provano verso la legalità democratica come strumento di giustizia sociale. Falcone, Borsellino e quelli come loro, che non parteciparono alla grande trattativa, cercarono precisamente di salvaguardare il valore della legalità come strumento di giustizia sociale, perché capace di liberare dalla paura. Furono per questo considerati dei “minchioni”, come anche quegli altri loro colleghi che per lo stesso motivo vollero processare Andreotti. Perché la guerra non può essere l’unica grammatica della storia.
Intanto i “soldati” lasciati col fucile in mano (e il portafoglio pieno di narco-denaro) continuano a sparare, perché quello sanno fare: così hanno ammazzato Antonella Lopardo il 2 maggio, così hanno sparato in faccia a Prencipe qualche giorno fa a Foggia, così hanno quasi sterminato una famiglia che si mangiava un gelato a Napoli l’altra sera. La guerra insegna soltanto la guerra.