Scriveva Nietzsche: “Sempre deve distruggere, chi vuol creare”. Aurelio De Laurentiis deve averlo preso un po’ troppo alla lettera: la filosofia che il patron del Napoli ha applicato con successo al pallone – “sempre deve smantellare la squadra, chi vuole vincere”, più o meno parafrasando Zarathustra – stavolta rischia di diventare presunzione.
Neanche il tempo di concludere la festa – quella ufficiale, l’ennesima, ci sarà solo domenica prossima -, ed in città non si parla d’altro di addii, di chi (forse) resta e di chi non ci sarà. Domenica il presidente ha ufficializzato a “Che tempo che fa” la separazione con Spalletti: “È una grande persona e un grande allenatore, ha fatto crescere una materia prima straordinaria. Lo ringrazio sempre, ma quando un allenatore ti dice certe cose che fai? Io lo ringrazio e gli auguro il meglio”. Saluti e baci. Il prossimo dovrebbe essere il direttore sportivo Giuntoli, il demiurgo sul mercato di questa squadra, ormai in trattativa aperta con la Juventus nonostante un altro anno di contratto. E poi i calciatori: il coreano Kim sembra sulla strada di Manchester, forte di una clausola rescissoria da 60 milioni, per Osimhen potrebbero arrivare dalla Premier offerte irrinunciabili, Zielinski va in scadenza nel 2024, almeno Kvaratskhelia dovrebbe rinnovare. Tradotto: l’ossatura della squadra che ha riportato a Napoli uno scudetto atteso per trent’anni – la mente, il braccio e pure diversi piedi – verrà rivoluzionata. Un’altra volta.
È un copione che si ripete in continuazione, altro che eterno ritorno: De Laurentiis si stufa spesso dei suoi tecnici (e a volte anche dei giocatori), che a loro volta finiscono per stufarsi di lui. Non si può dire che sia propriamente un “mangia allenatori” (gli esoneri in corsa, i colpi di testa, in fondo si contano sulle dita di una mano), ma dai tempi di Mazzarri nessuno ha resistito oltre tre anni. Il più longevo è stato Maurizio Sarri, ora la rottura con Spalletti lascia un’incredibile sensazione di déjà vu. Al di là delle motivazioni più o meno ufficiali (“Mi ha chiesto un anno sabbatico”), è evidente che fra i due si sia rotto qualcosa, a partire da quel rinnovo di contratto esercitato via Pec, impeccabile da un punto di vista legale ma inaccettabile nei modi (e infatti si è visto come è finita). Può esserci una punta di gelosia da primattore che scatta ogni qualvolta non è più lui, il presidente, al centro della scena? È semplice irrequietezza? È comunque una filosofia, in parte anche vincente.
A differenza di tanti suoi colleghi che peccano di eccesso di riconoscenza, De Laurentiis ha capito che nel calcio moderno – soprattutto col suo modello di business – bisogna cambiare per vincere. Per mille ragioni diverse, perché i contratti si gonfiano rinnovo dopo rinnovo (e fanno sballare i conti), le motivazioni durano meno di una stagione. In fondo, è così che ha costruito il suo capolavoro: lo scudetto del Napoli nasce la scorsa estate, quando la società ebbe il coraggio di tagliare i ponti col passato, congedare Insigne, Mertens e gli altri senatori contro il parere della città e ripartire dai giovani, indovinando tutto sul mercato. Ora De Laurentiis sembra intenzionato a rifarlo un’altra volta, in maniera ancor più radicale visto che la rivoluzione parte dal management tecnico.
C’è una differenza profonda, però: quella squadra era effettivamente arrivata a fine ciclo e l’azzeramento fu salutare. Questa è una formazione giovane, che ha appena iniziato a vincere e avrebbe potuto davvero aprire un ciclo. Dobbiamo già usare il condizionale, perché magari il ciclo ci sarà per davvero, ma ad aprirlo sarà comunque un altro Napoli. Oggi l’esigenza di cambiamento non c’è, almeno non si vede apertamente, la sente solo il suo proprietario. Che potrebbe anche essere stato bravissimo a cogliere alcuni segnali di sfaldamento, che si sono visti nel finale di stagione, prevenirli giocando ancora una volta d’anticipo. Ma certo resta la sensazione che stavolta la rivoluzione sia soprattutto il moto di orgoglio (o superbia?) di chi in fondo al cuore si ritiene lui, l’unico, vero artefice di questo storico trionfo. Ed è convinto di poter rivincere, senza tutto e tutti. Quasi un superuomo, insomma. Purché non lo tradisca la sua filosofia.