*presidente della Comunità di Sant’Egidio di Catania

Piazza Anita Garibaldi, a Palermo, la sera del 15 settembre 1993 era deserta. A terra giaceva il corpo di un uomo sanguinante e agonizzante, freddato da due sicari di Cosa nostra. Si chiamava Giuseppe Puglisi, prete palermitano e parroco di Brancaccio che, proprio quel giorno, compiva 56 anni. A trent’anni da quel tragico evento e a dieci dalla sua beatificazione, Rai 1 presenta al grande pubblico il documentario “Me l’aspettavo – il sorriso di don Puglisi”, in onda lunedì 29 maggio alle 23:45.

È vero, è stata la mafia a mettere fine alla vita di questo bravo sacerdote, ma descrivere don Pino come un prete antimafia è riduttivo e anche sbagliato. Lui era innanzitutto un cristiano vero che, attraverso il sacerdozio, aveva scelto di seguire il suo Signore, che celebrava sull’altare e serviva ritrovandolo nel volto dei poveri, specialmente in quello dei bambini. Sullo sfondo di una Palermo bisognosa e violenta nasce questo figlio del suo tempo, che guardava con l’intelligenza e la motivazione dei missionari al bisogno della sua città, al punto da dire: “L’Africa l’abbiamo qua!”.

Officina della Comunicazione e Matteo Billi, rispettivamente produttore e autore del docufilm – realizzato in collaborazione con Rai Documentari con la regia di Simone Manetti – raccontano, anche attraverso una raccolta di voci di amici, allievi e contemporanei di don Pino, la straordinaria avventura di un uomo che seppe affrontare la vita e il servizio affidatogli con la sola forza delle parole, della cultura e della fede. Senza difese e senza garanzie, senza fuggire quando avrebbe potuto. La nota eroica di quell’uomo fu il suo amore per il Vangelo, per i documenti del Concilio, per i libri che alla sua morte vennero ritrovati a casa sua ben organizzati, etichettati, rivelando pertanto anche la sua sensibilità culturale.

Puglisi inoltre amava il suo Papa, Giovanni Paolo II, e i poveri che gli era dato di incontrare perdendosi per le viuzze di Brancaccio. Non fuggiva di fronte ai problemi della gente e del quartiere, piuttosto li affrontava e, davanti alle difficoltà, sorrideva di rimando. Fece così anche quella notte. Puglisi stava rientrando a casa da solo dopo aver festeggiato con pochi amici il suo compleanno. “Padre, questa è una rapina” disse Gaspare Spatuzza, mafioso che insieme a Salvatore Grigoli prese parte al suo assassinio. È sorprendente ma coerente la risposta del prete, che, racconta Grigoli, un attimo prima di essere ucciso si girò verso Spatuzza e con un sorriso disse: “Me l’aspettavo”.

Il male si affronta, non si aggira. E se la mafia ha potuto stroncare la vita di un uomo non è riuscita a infiacchire il valore della testimonianza, del martirio del prete di Brancaccio. Alla base di questo lavoro non ci sono nuove rivelazioni di pentiti o altri dettagli che appassionano gli studiosi della criminalità organizzata o gli esperti del genere crime: c’è invece la voglia di far parlare don Puglisi alla coscienza del nostro tempo. Infatti è proprio il ritratto a tutto tondo del parroco di Brancaccio – uomo pieno di vita, di sogni e di domande – che fa di lui un cristiano, un siciliano non autoreferenziale o complesso, ma piuttosto accessibile a tutti, ieri come oggi. Il documentario ci aiuta a capire meglio la storia dell’uomo Puglisi facendola emergere in tutta la sua affascinante grandezza.

Don Pino non amava scrivere, sebbene fosse un vero umanista cristiano. Questa è una difficoltà per chi vuole ricostruire il suo pensiero. Avendo avuto il piacere di collaborare e seguire la realizzazione del lavoro, voglio mettere l’accento anche sulla ricerca delle fonti audio e video, che, unite alle memorie degli amici intervistati presso la piccola chiesa della “Maruzza” nel quartiere del mercato storico del Capo, hanno permesso importanti ricostruzioni che ci traghettano oltre la riduttiva narrazione del prete antimafia. Puglisi era uomo dell’incontro, dell’ascolto e del dialogo. Lo si vede nella vastità dei rapporti costruiti, nell’apertura verso tutti, nella capacità di non ritirarsi spaventato di fronte ai problemi nuovi e inaspettati.

Infine vorrei sottolineare un altro aspetto ben raccontato nel docufilm, ovvero di come la vicenda di Puglisi marchi la distanza incolmabile tra la fede cristiana e la realtà mafiosa. La visione, infatti, non è solo appassionante perché mostra la grandezza di don Pino nel confronto con la realtà tragica dei membri di Cosa nostra: forte e significativa è la presenza di povere donne che attendono inutilmente il ritorno dei figli inghiottiti dalla violenza, che non riescono ad uscire dal circuito mafioso ereditato dai padri, uomini raffinati e spietati nei loro disegni criminali ma anche rozzamente impauriti dal legame tra Puglisi e i bambini nel quartiere. La miseria di Cosa nostra si vede infatti a partire dai piccoli, dai bambini di Brancaccio, costretti a vivere in condizioni indegne, destinati ad essere aspiranti soldati.

Puglisi aveva compreso la mafia perché aveva dedicato gran parte della sua azione pastorale ai piccoli e ai giovani. Impressiona a tal proposito il fatto che un uomo disarmato sia riuscito, solo con la forza delle sue parole e del suo senso cristiano dell’amicizia, a far preoccupare uomini che hanno a disposizione soldati, denaro, armi e bombe come quelle fatte esplodere a Palermo, Firenze o a Roma. “La mafia è forte, ma Dio è onnipotente” celebra la targa fissata sul luogo dove don Pino Puglisi morì, ma dove regalò anche il suo ultimo sorriso.

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