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Erdogan di nuovo presidente: altri 5 anni per costruire la “nuova Turchia”. Tra attivismo in politica estera e autoritarismo interno

Recep Tayyip Erdogan è uscito vincitore dalle urne del 28 maggio. Con il 52,8 per cento di voti a suo favore, il presidente uscente ha battuto lo sfidante Kemal Kilicdaroglu, fermatosi al 47.9 per cento delle preferenze. L’affluenza però è stata più bassa rispetto al primo turno, passando dall’88 per cento al 85 per cento. Un dato importante e che ha probabilmente contribuito alla sconfitta di Kilicdaroglu, esponente del Tavolo dei sei, coalizione formata da sei diversi partiti che vanno dal centro-sinistra alla destra nazionalista. A non aver ripagato è stata con molta probabilità anche la virata nazionalista di Kilicdaroglu, che nel tentativo di accattivarsi i voti del terzo candidato ultra-nazionalista Sinan Ogan ha invece perso consenso nelle province curde. Comparando i risultati del primo e del secondo turno, l’opposizione ha vinto nelle stesse province in cui era risultato vincitore nel primo turno, ma con percentuali in alcuni casi più basse. In una sfida alla presidenza così serrata anche pochi punti hanno fatto la differenza. Interessante poi il caso di Hatay, provincia del sud-est colpita dal terremoto e in cui al secondo turno ha vinto Erdogan dopo un risultato invece favorevole all’opposizione nel primo. Gli elettori di Ogan hanno probabilmente deciso di supportare il presidente uscente, mentre una parte dei curdi ha scelto di non recarsi alle urne, disillusa dal risultato del primo turno e dalle alleanze siglate da Kilicdaroglu negli ultimi giorni. L’affluenza nelle regioni curde è infatti passata dall’81,7 al 75,7 per cento.

Dopo questa ennesima riconferma alla guida dal paese, Erdogan ha adesso altri cinque anni per continuare la sua opera di costruzione della “Nuova Turchia” (Yeni Turkiye) e per avviare quello che è stato da lui stesso definito il “secolo turco”. Una notizia certamente non positiva per l’opposizione politica e ancora di più per quella sociale, che ha già visto i suoi spazi di manovra restringersi progressivamente negli ultimi dieci anni e che guardava con giustificata preoccupazione a una nuova vittoria del presidente uscente. Nei prossimi cinque anni è facile immaginare un’ulteriore stretta sulle libertà e i diritti dei cittadini turchi, soprattutto dopo queste ultime elezioni in cui l’opposizione, per quanto perdente, ha raggiunto un risultato importante e ha rappresentato una minaccia al mantenimento del potere da parte di Erdogan. Quello che esce da queste elezioni infatti è un paese spaccato in due, in cui poco più del 50 per cento sostiene il nuovo presidente mentre un’altra metà desidera una Turchia diversa rispetto a quella che Erdogan sta costruendo e continuerà a costruire.

La capacità del presidente di far approvare le sue riforme e in particolare quella costituzionale per eliminare il limite di due mandati dipenderà anche dalla posizione che prenderanno alcuni partiti fino ad oggi parte dell’opposizione, tra cui l’Iyi Parti. Seconda formazione per importanza all’interno del Tavolo dei sei, il Buon partito potrebbe avvicinarsi a Erdogan e abbandonare i banchi dell’opposizione.

In cambio di una ulteriore limitazione dei diritti, il presidente dovrebbe continuare ad approvare politiche di welfare e di sostegno alle fasce meno abbienti della popolazione come già fatto nel corso dei suoi precedenti mandati e ancora di più negli ultimi mesi. Molto però dipenderà dallo stato dell’economia, al momento in forte crisi e con poche prospettive di ripresa nel breve periodo. Erdogan non sembra intenzionato ad abbandonare le sue politiche economiche né a smettere di tenere bassi i tassi di interesse, due elementi che insieme al controllo che lui stesso esercita sulla Banca centrale hanno causato l’aumento del costo della vita in Turchia e la diminuzione del potere di acquisto dei cittadini. Nel breve periodo Erdogan potrà fare affidamento sui finanziamenti di alcuni stati del Golfo, in particolare del Qatar, e sul posticipo del pagamento del gas importato dalla Russia, ma nel medio-lungo termine dovrà tornare ad alzare i tassi di interessi o rischia di condannare l’economia al collasso.

Una maggiore dipendenza economica dall’estero avrà degli effetti anche sulla politica estera, soprattutto per quanto riguarda la sua posizione verso la Russia. La scelta di porsi come mediatore nel conflitto ucraino però ha certamente permesso ad Erdogan di evitare tensioni con Mosca e gli ha anche garantito maggiore riconoscimento sul piano internazionale, permettendogli allo stesso tempo di bloccare l’entrata della Svezia nella Nato senza particolari ripercussioni. Un dossier che dovrebbe risolversi entro breve, soprattutto se gli Usa decidessero finalmente di approvare la vendita dei caccia F-16 ad Ankara. Nel prossimo futuro Erdogan ricoprirà ancora il ruolo di mediatore e non romperà i rapporti con la Russia, anche perché ha bisogno del supporto di Mosca per raggiungere un accordo con il governo di Damasco e avviare il rimpatrio “volontario” di almeno un milione di siriani.

Il ruolo che la Turchia gioca in Ucraina continuerà anche a regolare i rapporti con l’Unione europea e con gli Stati Uniti. Sia Bruxelles che Washington avranno bisogno della mediazione di Erdogan sul dossier ucraino, ma dovranno bilanciare questa necessità con la difesa dei propri interessi nel Mediterraneo. Ankara ha una contesa aperta con la Grecia riguardo la sovranità di alcune isole, la questione di Cipro – isola divisa in due dal 1974 – e quella legata allo sfruttamento delle risorse energetiche nel Mediterraneo sono ancora sul tavolo e la Turchia non metterà da parte i propri interessi nazionali. Senza contare la questione migratoria, usata come arma di ricatto nei confronti dell’Ue e su cui si tornerà presto a discutere. Un discorso simile vale poi anche per la Libia, dove Ankara è presente in sostegno del governo di Tripoli con l’obiettivo finale di posizionarsi in un paese strategico dal punto di vista delle rotte commerciali e migratorie, nonché utile punto di partenza per ampliare la propria penetrazione in Africa. La Turchia infatti sta investendo sempre di più nel rafforzamento dei rapporti con i paesi africani, sfruttando prima di tutto l’export di materiale bellico e in particolare dei droni. D’altronde Erdogan non ha mai fatto mistero della sua fascinazione per la gloria dell’Impero ottomano e punta a rendere la Turchia quantomeno una potenza regionale, attirando sotto la sua ala anche i paesi dell’Asia centrale.

Erdogan dunque continuerà a muoversi lungo le direttrici dell’autoritarismo interno e di un rinnovato attivismo in politica estera, ma la sua presa sulla Turchia è meno forte di prima.