La battaglia per la Rai, a leggere stampa, opinionisti e politici, è lotta per soddisfare la fame di potere di Meloni & camerati. Fame atavica, secondo alcuni. I barbari, l’estrema destra oggi al governo, arrivano a Viale Mazzini e, come Attila, razziano e devastano. Pare qualcuno già si avventuri a sostenere, con invidiabile sicurezza, che dopo Meloni non crescerà più l’erba. Cose che manco il cambiamento climatico.

Per qualcuno, invece, l’obiettivo è un altro: indebolire la Rai. O per avere un pubblico più ignorante e quindi più controllabile e manipolabile; o per fare un piacere al terzo socio dell’alleanza dell’ultradestra che detiene la maggioranza parlamentare: quel Silvio Berlusconi che, attraverso la longa manus della sua famiglia, è proprietario di Mediaset, il principale competitor di Mamma Rai. Più la Rai affonda, più il Biscione può spiccare il volo. È la tesi della segretaria del Pd Elly Schlein. Dai microfoni di Piazza Pulita su La7 recapita al Paese la sua: “Questa strategia è un impoverimento della Rai, sempre che non sia questo l’obiettivo del Governo”.

Per altri ancora, invece, l’ultradestra di governo deve soddisfare le richieste che arrivano da amici e parenti. Anche l’estrema destra tiene famiglia e chi è Meloni per negare una direzione o una conduzione al “cognato di”, alla “sorella di”, all’“amante di”?

Ognuna di queste tesi contiene qualche elemento di verità. Sete di potere, un favore a Berlusconi, coltivare clientele: tutti motivi plausibili, anche perché per nulla nuovi e, anzi, moventi parziali delle lottizzazioni della Rai nelle epoche dei governi precedenti. Ma se ci fermiamo qui rischiamo di ricalcare la maniera di pensare di chi dipinge continuamente le destre come aliene alla cultura, ammasso di ignoranza, coalizione di arraffoni. Un mondo radical chic che, mentre si vanta di una pretesa superiorità culturale, sembra non avere alcuna consapevolezza dell’importanza della Rai e, più in generale, delle tv. Al contrario dell’ultradestra.

Partiamo dal V Rapporto Auditel-Censis sui media, pubblicato il 19 dicembre 2022. E da qualche dato. Il primo: 43 milioni. È il numero di apparecchi tv presenti nelle case degli italiani nel 2022. In crescita: +200.000 rispetto al 2017. Il secondo: 2 milioni. È il numero di famiglie che possiede solo la tv tradizionale, senza accesso a internet. È l’8,1% del totale, una percentuale tutt’altro che trascurabile, sebbene in calo rispetto al 2017. Il terzo: 18 milioni. Sono gli italiani per i quali “la tv connessa rimane l’unico schermo da cui guardare contenuti e programmi video sul web”. Infine, la frase del V Rapporto Auditel-Censis che, da sola, spiega tantissimo: “La tv, presente nel 97,3% delle abitazioni, rimane al centro della fruizione mediatica degli italiani”.

Di cosa fruiscono gli italiani attraverso il principale medium, cioè la tv? Di cultura. Di senso comune. Di posizioni politiche. Tutti gli italiani, non solo una parte. Tutti, volenti o nolenti.

Non è da oggi che le destre dimostrano di aver compreso l’importanza delle tv. A partire da Berlusconi, che le televisioni private nazionali le ha di fatto fondate in questo Paese. Ma non è stato il solo.

Correva il 18 aprile 2002 quando l’allora Ministro delle Telecomunicazioni del Governo Berlusconi, Maurizio Gasparri, in un’intervista a La Stampa alla domanda “Ora gli sceneggiati vanno molto, ha qualche idea?”, rispondeva: “Credo sarebbe interessante realizzarne uno sulla tragedia delle foibe”. E alla successiva: “Perché proprio uno sceneggiato e non un programma storico?”, chiariva: “Se facciamo un documentario, magari con la riesumazione delle ossa, provochiamo soltanto ripulsa. Penso che sarebbe più efficace una fiction che raccontasse la storia di una di quelle povere famiglie”.

La fiction di cui parlava andò poi effettivamente in onda nel 2005: “Il cuore nel pozzo” contribuì alla costruzione di una narrazione sulle foibe che oggi, vent’anni dopo, è assolutamente egemone. Storie, emozioni, narrazioni. Epica in qualche caso. Almeno questo era l’obiettivo di Umberto Bossi, leader della fu Lega Nord, che il 19 ottobre 2009 appariva gongolante a chi gli attraversava la strada in occasione della “prima” di “Barbarossa”. Un film diretto da Martinelli, amico di Bossi, sostenuto dalla Lega Nord in tutte le fasi della produzione e sponsorizzato dal giornale di partito, La Padania. Per Bossi e la Lega era la possibilità di esaltare le gesta di Alberto da Giussano e della Lega dei Comuni e, attraverso loro, della Lega stessa, considerata un po’ l’erede di quella storia.

Di questo si tratta quando parliamo di tv: di egemonia. Una certa “sinistra” si rifugia nei grandi nomi, nell’orgoglio che i grandi intellettuali apparterrebbero al suo mondo. Senza comprendere che la produzione di senso comune e di cultura, nell’epoca della comunicazione di massa, non avviene solo attraverso libri, convegni, università. Molto, moltissimo, passa per la tv. Considerata invece una sorta di “parente scemo”, istituzione di serie B.

Come ricorda Vincenzo Vita dalle pagine de Il Manifesto, “La maggiore industria culturale del Paese è il terreno privilegiato per imporre visioni ed egemonie conservatrici e reazionarie. La marcia su Viale Mazzini rivela velleità superiori alla mera conquista di qualche scranno”.

La battaglia per la Rai non ci parla di qualche semplice posto di potere. Ma del potere di costruire il senso comune. Quello che poi permette di vincere le battaglie politiche – e non solo elettorali. E, da come viene affrontata questa battaglia, si capisce che le destre ultimamente hanno studiato Gramsci più e meglio di certa sinistra che ha abbandonato in cantina gli strumenti per l’emancipazione della maggioranza della nostra società.

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