di Carmine Di Filippo

Il prof. Pasquale Tridico, nell’articolo del 24 maggio, richiama il problema che molti avranno in futuro per le pensioni basse, perché il montante contributivo, su cui si calcola la pensione, sarà basso a causa dei pochi contributi versati. Pensa che si debba ‘cercare di evitare di creare pensionati poveri come quelli che ci saranno grazie ai voucher, lavoro intermittente, precariato e bassi salari”. Però mi pare utopistico riuscire a garantire costanza e remunerazione congrua per tutti, così che possano avere pensioni sufficienti.

A proposito dei ‘pilastri’ per le pensioni dice: “Dobbiamo cominciare a capire che in realtà sono tre: uno universale finanziato su base fiscale, un secondo pilastro che è previdenziale e che dipende dalla vita lavorativa di ciascuno di noi e un terzo integrativo privato ma su cui si può esercitare anche il pubblico”. Nel primo rientrano le forme di sussidio come pensioni sociali e assegni per i figli, il secondo è quello basato sui contributi obbligatori versati, il terzo è quello su base volontaria. Il primo non va soppresso, almeno penso. Ed è a carico della fiscalità generale non essendo coperto da entrate contributive. Il secondo comporta il problema di cui sopra: pensioni basse per molti. Il terzo è accessibile solo a chi ha risparmi da accantonare e una disponibilità che non ha chi lavora saltuariamente o a bassa remunerazione. Anzi questa pensione integrativa, col meccanismo della deducibilità e della minore tassazione in fase di erogazione, avvantaggia chi ha un reddito più alto e può permettersi di accantonare. Per inciso, pare che questo governo voglia anche aumentare il tetto di deducibilità, favorendo quindi chi ha redditi più alti; e poi lascia inalterata al 23% l’aliquota minima Irpef per i redditi più bassi. C’è a chi questo piace.

E’ da tanto che ho cominciato a capirlo: a me pare che il problema riguardi il secondo pilastro e il meccanismo di contribuzione obbligatoria, che per i dipendenti è per due terzi a carico del datore di lavoro e per un terzo a carico del lavoratore; mentre per gli autonomi è tutto a carico loro.

E se si eliminasse il ‘previdenziale’ contributivo? Se si pagasse a tutti con le entrate fiscali una pensione pari alla soglia minima di povertà, o qualcosa di più, come viene determinata dall’Istat? Il travaso da Erario a Inps c’è già: non sono casse distinte. Chi si vuole garantire una pensione più alta può ricorrere alla formula già esistente di pensione integrativa, che l’Inps potrebbe gestire. Naturalmente va fissata l’età di decorrenza del diritto alla pensione, con una anticipazione per i lavori usuranti e per l’inabilità non coperta dall’Inail.

Si riassorbono le pensioni sociali. Si elimina il numero minimo di anni di contribuzione obbligatoria per aver diritto alla pensione. Si evita la beffa che oggi subisce chi versa contributi obbligatori per una vita e muore dopo aver percepito una sola rata di pensione. Si elimina il carico contributivo per le ditte, riducendo il costo del lavoro. Si elimina l’immoralità di dover lavorare per ‘tenere i conti in ordine’ dell’Inps, che poi in ordine non sono perché l’Erario fa trasferimenti.

Ovvio che va ridimensionata la tassazione, per compensare il mancato introito contributivo.

Per il singolo si avrebbe il risparmio dei contributi obbligatori a fronte di un aumento, minore, di Irpef. E questo varrebbe anche per i datori di lavoro. Il totale delle entrate di Erario e Inps si ridurrebbe, a fronte di inferiori prestazioni offerte. Ci vorrebbe un periodo di transizione nel quale la pensione verrebbe erogata in parte in base ai versamenti già effettuati, quindi senza nulla togliere, come c’è stato nel passaggio da pensione retributiva a contributiva.

Non c’è spazio per dettagli e numeri, ma si avrebbe un sistema pubblico che garantisce una vita minimamente accettabile per tutti. Forse sarebbe una riforma troppo radicale, ma chissà che ne penserebbero il prof. Tridico e il suo successore.

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