Sono giorni che si dorme a fatica e sono due anni che Roma è avvolta in un incantesimo collettivo. Il mentalista, l’enorme manipolatore di questo sentimento allegro e ossessivo, si chiama all’anagrafe José Mário dos Santos Mourinho Félix, è nato a Setubal – Lisbona, Portogallo – sessant’anni fa. Félix ora siamo noi: un bel pezzo di città è in viaggio verso Budapest. Queste parole sono scritte a poche ore dalla cuccetta del treno notturno Roma-Vienna. In mattinata si fa colazione con la sacher e si prende l’auto a noleggio: in fondo all’autostrada c’è la coppa. La finale di Europa League è la seconda in due anni, l’ultima tappa di un viaggio senza senso, indimenticabile, nei quattro angoli del continente. Manca l’atto definitivo, questo è il racconto del prologo: la semifinale in Germania, a Leverkusen, la dépendance in cemento del gigante chimico della Bayer. Partiamo dalla fine perché spiega tutto il resto: dopo novanta minuti agonici, estenuanti, Mourinho concede alla televisione ufficiale del club un’ennesima lezione di comunicazione sportiva. “Conosco qualcuno che era lì – dice José, riferendosi al settore ospiti, riempito da 1800 romanisti -. È Antonio, il ragazzo che lavora a Trigoria. Antonio per arrivare qui ha fatto una cosa incredibile, è andato in treno fino a Bologna poi ha preso l’aereo per Colonia e domani tornerà da Amsterdam. So che ci sono tanti Antonio che hanno fatto questo sacrificio per stare con la squadra e io penso a loro, è parte del mio lavoro pensare a questa gente”.

Se quest’uomo, al di là di tutto, sarà ricordato come un genio del calcio è soprattutto per le sue capacità emotive. “Empatia”, la chiama lui. Mourinho ha colto lo spirito del viaggio, conosce la nostra ossessione e ci fa credere di condividerla, ingenui e felici come bambini. Sembrano dettagli superflui, ma il contesto che ha creato attorno alla squadra, oltre che dentro, è stato la pozione magica che ha trasformato il villaggio. Stavolta la sensazione è ancora più forte: sembra stia parlando proprio a noi, mentre lo ascoltiamo in differita, a notte fonda, nella camerata di un ostello di Colonia. Noi Antonio lo conosciamo davvero. In senso metaforico: siamo “tanti Antonio”, consapevoli di condividere la stessa patologia psichica. Ma non solo: l’aneddoto di Mourinho somiglia clamorosamente alla storia vera del quinto compagno di viaggio che si è aggiunto a Leverkusen. Ovviamente, per proteggere il suo anonimato, lo chiameremo Antonio.

Noi quattro ci eravamo dati appuntamento alla stazione Termini, quella mattina, pochi minuti prima delle 8. Un treno per Ciampino, poi una navetta per l’aeroporto. Va tutto troppo liscio: gli organizzatori seriali di trasferte – specie quelle europee, dai programmi bizantini e fantasiosi – lavorano per rubare piccole percentuali di certezze all’ignoto e ai capricci del destino, delle rotaie e del traffico aereo; l’imprevisto che riscrive i programmi e stravolge le giornate è sempre dietro l’angolo. La grande incognita, in questo caso, è lo scalo a Londra. Un passo indietro: il viaggio in Germania l’avevamo organizzato nell’epocale hang over di Roma-Feyenoord, 120 minuti più recupero di terrore, adrenalina e bicchieri di plastica svuotati in fretta. Quando abbiamo preso i voli, non lucidissimi, ci siamo fiondati su uno scalo economico a Stansted, ma ignorando un dettaglio significativo: il tempo. Tra l’atterraggio a Londra e il decollo per Colonia avremmo avuto poco più di un’ora. Post Brexit, non è un’operazione banale: bisogna uscire dal terminal degli arrivi, affrontare la ciclopica fila per il controllo passaporti, correre alle partenze, imboccare un’altra fila per il controllo bagagli e raggiungere il gate prima della chiusura. Un ritardo del volo da Ciampino sarebbe stato quasi certamente fatale.

Malgrado questo peso nell’anima, Ezio – in teoria il più meticoloso di noi quattro – si presenta al primo nastro con uno strano pacchetto nello zaino: una ventina di mini bottiglie di Caffè Borghetti legate e imballate in un involucro di plastica; un oggetto metafisico, bellissimo, che potrebbe essere frainteso per un panetto di droga come per la cintura porta proiettili di Rambo. Inspiegabilmente i Borghetti passano i controlli, nessuno fa una piega. Lo scalo a Londra però regala emozioni intense: atterriamo con 20 minuti di ritardo, ci affacciamo sul controllo doganale e la coda sembra apocalittica. Ma scorre. Arriviamo in fondo e scopriamo che il passaporto elettronico di Gianluca non è tanto elettronico: lo rimandano indietro, deve ricominciare la fila dall’altro lato. La disperazione è un motore potente: riparte a testa bassa dal fondo della stanza, sussurra parole incomprensibili alle persone davanti; si spiega, sgomita gentilmente, persuade e supera, arriva in fondo con una rapidità ignominiosa, senza nemmeno un alterco. Sgasiamo fino al terminal delle partenze, non c’è traffico né attesa, conquistiamo subito il nastro – i Borghetti, ca va sans dire, passano inosservati -: ce l’abbiamo fatta. Festeggiamo con una birra al bar dell’aeroporto e rischiamo di perdere l’aereo lo stesso. E invece arriviamo a Colonia quattro ore e mezzo prima della partita.

Ecco “Antonio”. Un personaggio curioso, il cui profilo umano è avvolto nella foschia alcolica del mistero: conosciuto in curva anni fa, non abbiamo mai approfondito il rapporto. Si è unito al viaggio per necessità reciproca: lui aveva, misteriosamente, un paio di biglietti in più per lo stadio (hanno salvato la trasferta); in cambio gli abbiamo dato una mano a trovare una soluzione più o meno abbordabile per arrivare e tornare da Leverkusen, quando i costi erano già proibitivi. Proprio come l’Antonio di Mourinho, è andato in treno da Roma a Bologna e ha preso l’aereo per Colonia. Proprio come l’Antonio di Mourinho, all’indomani lo attende uno scalo ad Amsterdam. Quando si è posseduti da questa condizione di allegro disagio, funziona così: più assurdo l’itinerario, più epica l’impresa. A Tirana, un anno fa, ci arrivammo con il traghetto Bari-Durazzo e poi con un viaggio lisergico a bordo dell’auto di un pazzo di nome Erion, poi tornammo su un aereo per Firenze (dove perdemmo il treno e guadagnammo un magnifico lampredotto alla stazione).

Diversi Borghetti e molti bar di Colonia più tardi, dopo un treno collettivo per Leverkusen e una passeggiata nel bosco fino allo stadio, entro alla Bay Arena in solitudine: a differenza dei compagni, non ho un biglietto ma un immeritato accredito stampa. Gli zelanti steward tedeschi si rifiutano di farmi raggiungere il settore ospiti. Provo a convincerli con formule prima professionali, poi lacrimevoli, ma non c’è modo: mi rassegno, salgo in tribuna stampa. La partita è un’agonia, il secondo tempo è terrore puro e straziante. Ma c’è una forma di grandeur estetica nella schietta bruttezza del calcio di Mourinho. Il manifesto è una giocata nei minuti di recupero: Wijnaldum è a metà campo, decentrato sulla sinistra, ha davanti a sé due avversari, temporeggia, scorge un corridoio tra di loro ed esegue un filtrante in diagonale. Il movimento del centrocampista inganna: non è un passaggio, ma un pallone gettato via; non c’è nessun compagno nell’arco di chilometri. La compostezza di Gini lo rende speciale: non tira una scarpata in tribuna, come si usa; colpisce di piatto, con calma olimpica. È una spazzata sublime, il pallone rimbalza nel nulla, rotola nell’oblio verso il fallo laterale con eleganza imperturbabile. Credo sia la goccia fa definitivamente uscire di senno i tedeschi. La Bay Arena è uno degli stadi più rumorosi in cui abbia mai messo piede, i tifosi del Leverkusen sembrano esterrefatti, sinceramente indignati per il nostro calcio primitivo. Noi godiamo. Mourinho ci ha trasformato in un corpo solo con un’anima enorme. Ogni velleità è rimossa: di questa squadra c’è poco da capire e tanto da tifare, è un’esperienza straordinaria, immersiva e carnale. In tribuna stampa però non si vive così: sono un animale in gabbia, un bestemmiatore in chiesa; soffro, batto i pugni sulla postazione, terrorizzo il collega di Repubblica, sant’uomo.

Poi a un certo punto la partita finisce: siamo in finale di Europa League. Col mio pass, come un ladro, scendo fino a bordo campo, mi avvicino dietro la porta, sotto “la Sud”. Guardo in su verso lo spicchio giallorosso, riconosco i compagni, ci abbracciamo a distanza. Il resto è festa: il ricongiungimento, un altro corteo nel bosco e ancora un treno stracolmo, il duomo di Colonia, un panino nell’improbabile kebabberia dell’eroe locale Lukas Podolski, bar e drink finché reggono le gambe, l’intervista di Mourinho su YouTube. Qualcuno si ferma più a lungo: Marco e Antonio. Rientrano in ostello verso le quattro. Il secondo è a quattro zampe, in condizioni ferine, vietate da qualsiasi convenzione internazionale. Noialtri dormiamo, ma per poco: un botto terrificante deflagra nel silenzio e fa tremare il pavimento della camerata. Antonio si è cappottato mentre provava a mettersi il pigiama. Resta sdraiato per terra e ride, ride forte, ridiamo tutti come dementi. All’indomani si parte da Dusseldorf, con scalo a Milano. In 32 ore abbiamo preso un treno, poi un pullman, un aereo, un aereo, un taxi, un treno, un treno, un taxi, un treno, un treno, un aereo, un aereo, un treno. Secondo lo smartphone abbiamo percorso anche 29 chilometri a piedi, in 7 ore e 25 minuti di camminate. E il bello è che il viaggio continua, continua, continua. Mourinho ci ha dedicato il suo meraviglioso catenaccio, sul navigatore c’è scritto Budapest. Cosa sarebbe il calcio senza Antonio?

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