Il secondo, tanto atteso processo alla Juventus per la famosa manovra stipendi è finito un po’ a tarallucci e vino: 700mila euro di multa, praticamente un buffetto per una società di calcio, e la pietra tombale sui ricorsi. La Figc ha tenuto il punto in un contenzioso giudiziario scivolosissimo, ha punito i colpevoli e tira un bel sospiro di sollievo per aver chiuso una volta per tutte questa brutta storia carica di insidie (lo si capisce bene dalle parole del presidente Gravina: “È il risultato più bello del calcio italiano”). La Juve ha schivato una seconda stangata per accuse piuttosto evidenti, può programmare il futuro e, salvando la qualificazione alla Conference, si assicura pure la possibilità di scontare una eventuale squalifica Uefa nelle coppe già sulla prossima stagione, senza perdere altri anni in Champions. Tutti felici e contenti, più o meno.

Rimane l’enorme perplessità sul funzionamento della giustizia sportiva, non tanto per come si è conclusa la vicenda ma per come si è svolta. Se sei mesi fa ci avessero detto che lo scandalo avrebbe portato la Juventus fuori dalle coppe per un anno, probabilmente tanti sarebbero stati d’accordo sull’equità del verdetto. Il problema è come ci si è arrivati, con lo stucchevole balletto sui punti di penalizzazione e poi questo patteggiamento che sa tanto di compromesso. È stata comminata una sanzione pesante per le plusvalenze, materia complessa e soggetta a varie interpretazioni, mentre quasi nulla è costata la manovra stipendi, che a parere di tutti era la contestazione più grave mossa alla Juve e ai suoi ex dirigenti. Ma non è che essere già stati puniti duramente per un reato ti rende meno responsabile dell’altro.

È evidente che le due vicende, se non sul piano processuale, si siano saldate nella valutazione politica. Perché di questo si è trattato, facendo di tutto un conto unico. Il patteggiamento di oggi è figlio della sentenza sulle plusvalenze di ieri, eppure si trattava di due procedimenti diversi. La Figc si è accontentata di aver raggiunto il suo obiettivo (“punire” in senso lato la condotta del club) e ha accettato un accordo al ribasso sul secondo filone, senza nemmeno preoccuparsi di salvare le apparenze con una sanzione maggiore: si era parlato di “maxi-multa” ma 700mila euro per un club di vertice sono bruscolini (anche senza lo sconto di un terzo la richiesta della Procura si sarebbe fermata al milione). La stessa Juventus è ricorsa al patteggiamento solo quando si è resa conto di aver perso la partita sulle plusvalenze. E viene il sospetto (anche se non ci sarà mai la controprova) che senza le sconfitte clamorose contro Empoli e Milan e una Juve in corsa per la Champions, oggi non staremmo parlando di una piccola ammenda ma di altri punti di penalizzazione.

Non abbiamo capito qual è l’esatta sanzione per le plusvalenze fittizie: l’art. 4 sulla lealtà sportiva resta un istituto giuridico totalmente discrezionale e nelle mani dei giudici, come dimostra la stessa quantificazione ex post dei punti di penalizzazione affibbiati alla Juve formulata nelle motivazioni della Corte d’appello, non si capisce bene in base a quali criteri. Mentre passa il messaggio, e anche un precedente piuttosto pericoloso, che si possono stipulare accordi paralleli con tesserati, senza depositarli nelle sedi ufficiali, passandola praticamente liscia. L’unico articolo che prevedeva un automatismo serio, credibile (art. 31.: multa “da uno a tre volte l’ammontare illecitamente pattuito”) non è stato applicato in questa vicenda.

Il paradosso è che alla fine la Juventus paga comunque ciò che doveva pagare. La retrocessione in Serie B, di cui tanto si è parlato a sproposito, non è mai stata seriamente in discussione, e – diciamo la verità – non sarebbe stata neanche congrua: il codice la prevede solo in caso di vizi sulla regolare iscrizione al campionato, e nessuno può sostenere che la Juve di Agnelli non avrebbe potuto partecipare alla Serie A, senza i benefici contabili delle plusvalenze e della manovra stipendi. Ragionando con estrema concretezza, un anno fuori dalle coppe (che vuol dire per inciso un danno collaterale da decine di milioni di euro) è comunque una pena più che severa. Probabilmente l’unica conclusione giusta possibile. Poi la giustizia è un’altra cosa.

Twitter: @lVendemiale

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