A raccontare di bellezza, Luca Sommi ci aveva già abituato, e bene, con Il cammin di nostra vita – Viaggio nella Divina Commedia. Una passeggiata ipnotica e soave, sensibilmente e straordinariamente competente, per raccogliere gemme dantesche che in La Bellezza – Istruzioni per l’uso (Baldini + Castoldi) si ripresentano sotto forma di filosofia, arte, e di nuovo letteratura, con il tipico afflato del conduttore di Accordi&disaccordi, nonché direttore responsabile del sito web Ifioridelmale.it: l’attualità dei classici. A partire dal capitolo che IlFattoQuotidiano.it propone in anteprima dedicato a Guerra e Pace di Tolstoj, o ancora meglio all’insensatezza della guerra e all’anelito per la pace, dove Sommi sottolinea similitudini tra l’ieri e l’oggi partendo dall’imponente guerra napoleonica contro la Russia, prodromo del fallimento espansionista dell’imperatore francese e successivamente della sconfitta epocale a Waterloo contro la sesta coalizione. L’escalation improvvisa dei fatti militari e di guerra, l’indicibilità della nostra vita di uomini “capaci di entrare in guerra senza nessuna remora di carattere morale”, l’elemento divino che ammanta il capo popolo e l’agire del popolo, e ancora Tucidide e il “dialogo dei Meli”: antica Grecia o Russia odierna poco o nulla cambia, ma “una cosa è certa, che la guerra la combattono quelli che non la decidono. E quelli che la decidono non muoiono mai. Gli altri sì”.
Irregolare ed eretico il saltabeccare di Sommi tra epoche e celebrità, così in un angolo de La Bellezza trovi le tracce dell’ombra sgarbiana con Picasso che elogia la lentezza e l’originalità compositiva di Balthus, e l’autore che accompagna nuovamente il lettore dentro la conoscenza dell’arte: “È sufficiente credere nel fatto che esistono diversi gradi di lettura dell’opera, dal critico d’arte al principiante, ma entrambi partono dalla stessa posizione, quella dello stupore. Ed è quello stupore che dovremmo conservare sempre, perché è quello che muove il mondo, non solo dell’arte”. Sommi spazia dal “parlare sporco” che fa andare in bestia Deleuze (segno inequivocabile del fastidio verso l’inesauribile “parlare degli intellettuali”) ma che ci dice molto di come si scompone e ricompone l’aulico concetto di “cultura”; poi crea una sorta di intervallo con una delizia preziosa come La petite promenade d’un poete di Dino Campana, fino alla citazione limpida e sfolgorante sulle donne di Celine di Viaggio al termine della notte. Mentre nel mezzo del cammino di La Bellezza ritorna l’orrore per la guerra generata dal sonno della ragione nelle opere di Goya e del mai troppo compreso Grosz. Chicca houellebecquiana, in questo florilegio del bello e sul bello, il capitolo su Huysmans e il suo A rebours, tradotto malamente in Controcorrente (Garzanti), romanzo delizioso, imprescindibile, travolgente che Sommi sintetizza nel titoletto come “psicosi estetica”.
A lui la parola per mostrarvi una declinazione diversa del bello, quella ossessiva del protagonista del romanzo di Huysmans, Jean Floressas Des Esseintes, “aristocratico, istruito dai gesuiti, che rimane orfano molto presto. Per sua fortuna, è ricchissimo ed è uomo di letteratura. Vive la Parigi della seconda metà dell’Ottocento, una città fatta di tutto, di vizi, di nottate, di droga e di alcol. Decide di dire basta a questa vita: abbandona la città e i suoi salotti tossici e si ritira in una casetta di campagna. È qui che comincia la sua storia ossessivo-compulsiva, nevrotica poi psicotica: arredare casa in modo maniacale fin nei più piccoli dettagli”. Poi certo, se non arriverà la scintilla sulla bellezza, almeno capirete molto di più della poetica beffarda di Houellebecq. E non è poco.
L’estratto in anteprima esclusiva:
La guerra e la pace, da Tucidide a noi.
Laddove non riusciamo a cambiare il mondo cambiamo le parole. E le parole diventano zuccherini che addolciscono il peso delle cose che non cambiano mai. Una volta Guido Ceronetti scrisse una cosa che si è poi rivelata più di una profezia, scrisse che “tra un po’ non potremo più dire “morti”, ma “diversamente vivi”, altrimenti i defunti si offenderanno”. E oggi quel “diversamente tutto” è un panno caldo per qualunque categoria umana che, nonostante abbia una difficoltà, non la si riesce ad aiutare se non riclassificandola con un termine tanto buonista quanto inutile. È accaduto anche per la guerra, lo avrete notato. La Russia vuole invadere l’Ucraina? Dice “operazione speciale”. Peggio abbiamo fatto “noi” quando abbiamo invaso Paesi sovrani (adducendo motivazioni che poi si sono rivelate fake news, anzi scusate, si dice menzogne, o meglio ancora balle) abbiamo detto che stavamo “esportando democrazia”, come fosse un prodotto. Oggi è come se alla ragion di Stato – geneticamente modificata – servisse ammantarsi di una liturgia che, da un lato, rassicuri e, dall’altro, abbia un alibi morale per fare le cose sporche. Infatti la guerra si trasforma nel suo opposto: operazione di pace. Per fortuna c’è la letteratura, almeno quella grande – i classici, diciamo – che le parole le usavano bene. Guerra e Pace di Tolstoj chiama la guerra “guerra” e la pace “pace”. L’intero, infinito, colossale romanzo racconta la storia di due famiglie (russe) durante la guerra napoleonica (alla Russia) iniziata nel 1812. Un pretesto, la guerra, per raccontare l’uomo e la donna del suo tempo, la borghesia, la vita quotidiana, e insieme per riflettere in modo quasi metafisico il procedere inesorabile degli eventi che la Storia di propina. Un passaggio fondamentale: siamo nella prima parte del libro terzo del romanzo. Tolstoj racconta: “Verso la fine del 1811 erano iniziati, sempre più intensi, l’armamento e la concentrazione delle forze dell’Europa occidentale; e nel 1812 queste forze (milioni di uomini, se si contano anche quelli che provvedevano al trasporto e all’approvvigionamento dell’esercito), si mossero da occidente a oriente, in direzione della frontiera con la Russia, verso la quale, a partire dal 1811, erano del pari affluite le forze russe”. Sembrano parole di oggi, l’escalation in tutto e per tutto. E continua: “Il 12 giugno le forze dell’Europa occidentale varcarono il confine con la Russia e scoppiò la guerra: un evento contrario alla ragione e alla natura umana divenne realtà”. Che la guerra sia contro la natura umana forse non è così, però Freud doveva ancora arrivare – l’uomo ha due pulsioni, uccidere e procreare, ci dirà poi il filosofo austriaco – però poi le parole, a differenza di oggi, dicono quello che devono dire, senza sconti: “Milioni di uomini commisero, gli uni al danno degli altri, un numero indicibile di misfatti, tradimenti, ladrocini, rapine, incendi e assassinii, falsi in assegni e denaro, quali per secoli non ne annoverano le cronache di tutti i tribunali del mondo. E invece durante quel periodo gli uomini che se ne macchiarono non li considerarono nemmeno reati”. Uccidere in guerra non è reato, a volte non ci si pensa, ma è drammaticamente così, e Tolstoj lo dice senza giri di parole. Questo romanzo è un capolavoro assoluto proprio perché non cela, anzi, mostra quanto spesso sia indicibile la nostra vita di uomini e donne, soprattutto uomini, capaci di entrare in guerra senza nessuna remora di carattere morale. Ed è proprio su questi punto che, dopo la narrazione degli eventi, Tolstoj alla fine del romanzo si tiene un lungo epilogo finale per riflettere sul senso della guerra sotto un profilo esistenziale, o se preferite, filosofico. Eccolo nei suoi passaggi salienti. Scrive Tolstoj: “L’oggetto della storia è la vita dei popoli e dell’umanità. Cogliere in modo immediato ed esprimere a parole, descrivere la vita non tanto dell’umanità ma di un popolo singolo, appare impossibile.
Tutti gli storici antichi usarono un unico metodo per descrivere e cogliere la vita di un popolo, che apparentemente è inafferrabile. Descrissero l’attività di singoli uomini che erano a capo di quel popolo e questa attività esemplificava per loro l’attività dell’intero popolo”. Concetto chiarissimo: per darsi una risposta agli interrogativi che lo opprimono spiega cosa facevano gli storici del passato. E lo dice senza retorica: “Alle domande in che modo singoli uomini potessero costringere i popoli ad agire secondo la loro volontà e da che cosa fosse a sua volta guidata la volontà di questi uomini, gli antichi rispondevano così: alla prima domanda, ammettendo una volontà divina che assoggettava i popoli alla volontà di un uomo eletto; e alla seconda domanda ammettendo che quella stessa divinità dirigesse la volontà dell’eletto a una meta predestinata.” Tradotto: per gli antichi non esiste fatto storico che non possa, in modo retrospettivo, essere attribuito alla volontà divina. Ri-tradotto: il destino dell’uomo era guidato da un disegno talmente metafisico da rendere inutile qualsivoglia elucubrazione: Alessandro Magno era unto del Signore, punto e basta. “Se la storia seguisse ancora le concezioni degli antichi, direbbe: la divinità, a ricompensa o a punizione del suo popolo, ha dato il potere a Napoleone e ha guidato la sua volontà verso il raggiungimento dei suoi scopi divini. E la risposta sarebbe chiara ed esauriente. Si poteva credere o non credere nel significato divino di Napoleone, ma per chi vi avesse creduto, in tutta la storia di questo periodo tutto sarebbe stato comprensibile e non vi sarebbe stato spazio per nessuna contraddizione”. Tuttavia lo stesso Tolstoj scrive che la storiografia moderna ci ha però provato a emanciparsi da questo assunto, ma senza trovare un risposta degna. “Ma la storia moderna non può rispondere in questo modo. La scienza non ammette le concezioni degli antichi riguardo al diretto intervento della divinità nelle opere degli uomini ed è costretta a dare altre risposte.” Dunque da che cosa è stato prodotto, e chi ha provocato questi avvenimenti? Sentite (per intero, dice Tolstoj nel finale dell’epilogo): “Luigi XIV era un uomo molto orgoglioso e supponente; aveva le tali amanti e i tali ministri e governò male la Francia. Gli eredi di Luigi XIV furono anche loro degli uomini deboli e governarono anche loro male. Ebbero le tali amanti e i tali favoriti. Inoltre alcuni uomini scrissero in quei tempi dei libri. Alla fine del XVIII secolo a Parigi si riunirono una ventina di persone che cominciarono a dire che tutti gli uomini sono liberi e uguali. Questi uomini uccisero il re e molti altri. In quella stessa epoca la Francia aveva un uomo geniale, Napoleone. Egli vinceva tutti ovunque, ossia ammazzava molta gente perché era molto geniale. E andò ad ammazzare, non si sa perché, gli africani e li ammazzò così bene e fu tanto astuto e intelligente che, tornato in Francia, ordinò a tutti di sottomettersi a lui. E tutti gli obbedirono. Diventato imperatore, andò di nuovo ad ammazzare gente in Italia, in Austria e in Prussia. E anche là ne uccise molta. In Russia intanto c’era l’imperatore Alessandro, il quale decise di restaurare l’ordine in Europa e perciò entrò in guerra con Napoleone. Ma nel 1807 ad un tratto fece amicizia con lui, e nel 1811 di nuovo litigò e di nuovo si misero entrambi ad ammazzare molta gente. E Napoleone guidò seicentomila uomini in Russia e occupò Mosca; ma poi all’improvviso scappò da Mosca e allora l’imperatore Alessandro, aiutato dai consigli di Stein e di altri, riunì i popoli d’Europa contro il perturbatore della sua quiete. Tutti gli alleati di Napoleone diventarono d’un tratto suoi nemici; e questo esercito marciò contro Napoleone che aveva raccolto nuove forze. Gli alleati sconfissero Napoleone, entrarono in Parigi, costrinsero Napoleone ad abdicare e lo spedirono nell’isola d’Elba, senza privarlo del titolo di imperatore e dimostrandogli grande rispetto sebbene cinque anni prima (e così un anno dopo) questi avvenimenti, lo considerassero tutti un bandito fuori legge. E salì al trono Luigi XVIII, che fino a quel momento sia i francesi che gli alleati avevano solo schernito. Napoleone, versando lacrime davanti alla sua vecchia Guardia, abdicò e andò in esilio. Poi abili statisti e diplomatici (in particolare Talleyrand, che era riuscito a sedersi prima di un altro in una certa poltrona e aveva ampliato in tal modo i confini della Francia) ebbero lunghi colloqui a Vienna, colloqui che resero i popoli felici o infelici. Ad un certo punto diplomatici e monarchi per poco non vennero a lite; ed erano già pronti a comandare di nuovo ai loro eserciti di ammazzarsi a vicenda; ma in quel momento Napoleone fece ritorno in Francia con un battaglione, e i francesi che tanto lo odiavano gli si sottomisero immediatamente tutti, dal primo all’ultimo. Ma i monarchi alleati se ne adontarono e andarono di nuovo a combattere contro i francesi. E vinsero il geniale Napoleone e lo trasferirono all’isola di Sant’Elena, giudicandolo di nuovo un bandito. E laggiù l’esiliato, separato da coloro che erano cari al suo cuore e dalla sua amata Francia, morì su uno scoglio di morte lenta e tramandò ai posteri le sue grandi imprese. E in Europa si affermò la reazione e tutti i sovrani ripresero di nuovo a opprimere i loro popoli”. Per quale motivo, si chiede Tolstoj, un ragazzo uccide un altro ragazzo che non conosce per motivi, che oltre a trascenderlo, non lo riguardano neppure? Perché due giovani sono pronti a spararsi senza un motivo? “Se il fine della storia è la descrizione del movimento dell’umanità e dei popoli, la prima domanda a cui occorre rispondere, altrimenti tutto il resto diventa incomprensibile, è la seguente: qual è la forza che muove i popoli? A questa domanda la storia moderna si affanna a risponderci o che Napoleone era molto geniale o che Luigi XIV era molto orgoglioso o che ci sono stati alcuni scrittori che hanno scritto alcuni libri”. La sintesi non è forse che il destino dei popoli, visto nella visione laica moderna, è nella mani di pochissime persone – oltre che a Dio – e che se queste poche persone in un determinato momento storico sono quelle sbagliate accadono i disastri? Tutto ciò è del 1867 ma sembra il 2023, vero? Tolstoj: “Tutte cose che possono essere vere, e l’umanità è pronta a convenirne, ma non è questo che essa domanda. Tutto questo potrebbe essere interessante se noi ammettessimo un potere divino, fondato su se stesso e sempre eguale, che governa i popoli attraverso i Napoleoni, i Luigi e gli scrittori, ma noi non ammettiamo un potere del genere, e perciò, prima di parlare dei Napoleoni, dei Luigi e degli scrittori, bisogna dimostrare che esiste un legame tra queste persone e il movimento dei popoli”. Andiamo nel mondo antico, nel “Dialogo dei Meli” di Tucidide, uno dei padri della storiografia greca: Guerra del Peloponneso, seconda metà del quinto secolo a.C. I Meli, la popolazione di una piccola isola che fa parte dell’impero di Atene, non vogliono essere più sottomessi alla città: ma solo amici (e neutrali in guerra). Tra l’altro – lo ha scritto Christian Stocchi su ifioridelmale.it – “le loro radici sono spartane e la loro speranza (vana) è che l’antica madre patria, nemica di Atene, venga in loro soccorso. Il dialogo è un capolavoro di tensione teatrale, fondato sul botta e risposta. Da una parte, le ragioni della forza imperialista, che rinuncia alla maschera della giustizia. Dall’altra le ragioni del debole, che si appella a tutto quello che la sua dignità gli suggerisce (dall’onore all’etica), ma inutilmente. I Meli finiranno brutalmente sterminati”. Antica Grecia o Russia moderna poco cambia. “Se in luogo del potere divino mettiamo un’altra forza, bisogna spiegare in che cosa consiste questa nuova forza, perché proprio in questa forza sta tutto l’interesse della storia”. Ad oggi non lo sappiamo. Però un cosa è certa, che la guerra la combattono quelli che non la decidono. E quelli che la decidono non muoiono mai. Gli altri sì.