di Agostino Bighelli *
Nello stipulare il contratto di lavoro può esservi la necessità per datore e prestatore di valutare se sia per loro conveniente o meno rendere definitivo il rapporto: a tale esigenza reciproca risponde il cosiddetto “patto di prova”. Previsto dall’art. 2096 c.c., esso consiste in una specifica intesa attraverso la quale le parti si accordano affinché, per un certo periodo di tempo iniziale, esse siano reciprocamente libere di capire se valga o meno la pena di rendere definitivo il rapporto di lavoro, in caso negativo potendovi porre fine liberamente, senza cioè necessità di motivazione, indennità o preavviso (salvo che sia previsto un tempo minimo di prova, in tal caso il recesso non può essere esercitato prima della scadenza del termine).
Dal patto di prova sorgono gli obblighi per il datore di lavoro e per il lavoratore, rispettivamente, di consentire e di prestare la prova concordata e, una volta decorso positivamente (per entrambe le parti) il periodo stabilito, l’assunzione del lavoratore diviene definitiva.
La validità del patto è subordinata alla forma scritta e alla necessità di essere formalizzato al momento della stipulazione del contratto di lavoro: è pertanto illecito (e nullo) un patto di prova stipulato successivamente a rapporto oramai in corso. Ciò significa che se il rapporto di lavoro è cominciato prima della stipula del patto di prova, quello è da considerarsi ormai stabilizzato.
Un ulteriore requisito di efficacia del patto riguarda la necessità che le parti indichino quali siano le specifiche mansioni per le quali esso è stipulato: in mancanza di una dettagliata identificazione dei compiti oggetto di valutazione, infatti, al lavoratore sarebbe preclusa la possibilità di impegnarsi per dimostrare le proprie attitudini professionali, mentre il datore si vedrebbe privato della facoltà di esprimere una compiuta valutazione in ordine all’attività svolta dal prestatore.
Considerato inoltre che il patto di prova ha la finalità di consentire ad entrambe le parti di valutare la convenienza di un eventuale rapporto in ordine a determinate mansioni, consegue l’illegittimità del patto laddove i medesimi soggetti intrattengano successivi rapporti di lavoro e venga stipulato un nuovo patto di prova riferito alle medesime mansioni già positivamente superate in precedenza.
Quanto alla durata (massima) del periodo di prova essa è stata fissata in 6 mesi dall’art. 7 D.Lgs. n. 104/2022 fatto salvo l’eventuale periodo più breve stabilito dal CCNL di riferimento.
Al termine del periodo di prova, se nessuna parte esprime volontà di recedere, la condizione apposta al contratto si ritiene automaticamente superata e il contratto prosegue in via definitiva, senza che sia necessario provvedere ad alcuna formalità in tal senso.
Nell’ipotesi in cui il datore di lavoro receda illegittimamente dal rapporto di lavoro (ad esempio per non avere messo il lavoratore nelle condizioni effettive di prestare la prova, o per averla il prestatore positivamente superata oppure ancora nei casi in cui di fatto manchi una reale valutazione delle capacità espresse, etc.) al dipendente sono riconosciuti il diritto alla prosecuzione della prova per il periodo mancante (ove possibile) oppure il diritto al risarcimento del danno. Dunque, come affermato dalla giurisprudenza (cfr. Cass. Civ., n. 31159/2018; Cass. Civ., n. 23231/2010) la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova non ha di per sé come conseguenza che il rapporto di lavoro si debba considerare come stabilmente costituito.
Il lavoratore licenziato, tuttavia, può aspirare alla tutela reale o obbligatoria nel caso in cui dimostri che il datore di lavoro ha agito per motivo determinante illecito (con conseguente nullità del provvedimento espulsivo) o comunque del tutto estraneo alla prova (cfr. Trib. Roma, Sez. Lavoro, 25.03.2021; App. Venezia, 03.02.2011).
*Avvocato del Foro di Verona. Dal 2019 al 2022 membro della “Commissione Diritti dell’Uomo” dell’Ordine degli Avvocati di Verona.