di Mikhail Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia

L’iter di conversione in legge del Decreto Lavoro, simbolicamente approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 1° maggio, entra in questi giorni nel vivo presso la Commissione competente al Senato. Si tratta di un provvedimento che riporta indietro di 5 anni le politiche nazionali di contrasto alla povertà.

La “riforma” del reddito di cittadinanza nel DL Lavoro: l’iniqua selezione tra poveri

Con la “riforma” del reddito di cittadinanza (RdC), il Governo Meloni abolisce di fatto – un unicum nel contesto europeo – il diritto di ogni cittadino in difficoltà, che rispetti determinati requisiti reddituali, patrimoniali e di residenza, di accedere in modo continuativo, ovvero fino a quando il bisogno persiste, a un contributo monetario che gli permetta di condurre un’esistenza dignitosa.

Il Governo volta così le spalle al principio di universalismo selettivo, su cui era incardinato il RdC, che garantisce l’accesso al sostegno pubblico a tutti i poveri, in quanto tali, indipendentemente dalle loro caratteristiche individuali come quelle anagrafiche o legate alla presenza di minori nel nucleo familiare di appartenenza.

Diversamente, il nuovo Assegno di Inclusione (AdI) diventa categoriale: sarà riservato alle persone in povertà che vivono in nuclei con persone anziane (over 60), minori o componenti disabili.

Per tutti gli altri poveri è previsto invece il Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL). Un aiuto temporaneo della durata massima di 12 mesi, la cui erogazione è condizionata alla partecipazione a corsi di formazione o a progetti utili alla collettività (PUC). Si tratta di una prestazione che non costituisce una misura contro la povertà, secondo le indicazioni della recente comunicazione del Consiglio europeo, non essendo erogata fino al momento in cui il percettore esce dalla condizione di povertà e prefigurando un importo non adeguato agli effettivi bisogni del beneficiario: appena 350 euro al mese, senza più il rimborso delle rate del mutuo o del canone di locazione per chi vive in affitto, come previsto dal RdC.

Rinunciando ad assegnare allo Stato il compito di garantire il diritto a una “vita decente” a tutti i poveri, la “riforma” del RdC traccia un nuovo, iniquo, spartiacque nello status di cittadinanza tra le famiglie povere con figli, anziani o disabili a carico – le uniche ritenute “meritevoli” di aiuto continuativo nel tempo – e il resto della popolazione. Un’ampia platea di cittadini poveri verrà così supportata poco e per poco tempo e rischierà di vedersi privata di sostegno economico in mancanza di presa in carico da parte di un centro per l’impiego o, a presa in carico effettuata, in mancanza dell’avviamento a un corso di formazione o al termine naturale del periodo di fruizione del SFL.

Il Supporto per la Formazione e il Lavoro: l’equivoco del Governo

Profondamente “equivocata” è l’idea del Governo che i poveri “non meritevoli”, supportati dal SFL, possano fuoriuscire in tempi relativamente rapidi dalla condizione di povertà grazie a un lavoro.

Come si possono immaginare esiti occupazionali significativi per persone selezionate non sulla base di una reale maggiore probabilità di trovare un impiego, valutata attraverso il grado di istruzione, le competenze possedute e le eventuali esperienze lavorative precedenti? È inverosimile, se si pensa che prima della “riforma” appena 1 beneficiario su 4 del reddito di cittadinanza, convocato dai centri per l’impiego per sottoscrivere il patto per il lavoro, risultava vicino al mercato del lavoro e solo 1 su 8 aveva un’esperienza lavorativa conclusasi nell’ultimo anno.

Com’è possibile pensare che tutti i potenziali beneficiari del SFL siano in grado di partecipare a corsi di formazione o altre misure di politica attiva? Cosa succederà ai potenziali aventi diritto in condizioni di fragilità che necessiterebbero di una presa in carico da parte dei servizi territoriali per ottenere il dovuto supporto sociale e psicologico, piuttosto che di un’automatica inclusione in percorsi di formazione professionalizzante?

Concentrandosi esclusivamente sulle variabili anagrafiche, fisiche e familiari, l’esecutivo avalla l’idea che chi, in assenza di impedimenti personali e familiari, non lavora lo fa per mancanza di volontà e perché può scegliere di non farlo grazie al supporto pubblico che riceve. Non meritano considerazione – nell’ottica governativa – il contesto socio-economico in cui un povero è inserito, le poche opportunità e le barriere presenti sul mercato del lavoro, le politiche attive carenti o le deboli misure di conciliazione. In tal modo il Governo contribuisce ad accentuare la confusione tra volontà e possibilità di lavorare, da tempo prona a facili strumentalizzazioni e stigmatizzazioni nel dibattito pubblico.

Il “salvagente” del lavoro…povero

Portando alla ribalta il “dovere sociale di lavorare”, il Governo non sembra porsi troppi problemi sulla qualità del “salvagente” proposto. Altrimenti non avrebbe inasprito, rispetto al reddito di cittadinanza, l’obbligo per i beneficiari dell’Assegno di Inclusione in età da lavoro e attivabili di accettare un qualsiasi lavoro a tempo indeterminato (anche part time) sull’intero territorio nazionale – senza curarsi se la retribuzione sia sufficiente a finanziare lo spostamento dell’eventuale famiglia – o una qualunque occupazione a tempo determinato entro 80 km dal luogo di residenza, anche della durata di pochi mesi e difficilmente in grado di garantire un’esistenza dignitosa.

Piuttosto che correggere i principali limiti del RdC, rendendo l’istituto più equo ed efficiente, come raccomandato dal Comitato Scientifico di Valutazione presieduto da Chiara Saraceno, il Governo ha adottato un approccio categoriale al reddito minimo con conseguenze peggiorative per la povertà e la disuguaglianza, come stimato di recente dagli economisti Aprea, Gallo e Raitano. Un intervento destinato tristemente ad ampliare i divari sociali e le file dei bisognosi nel Paese.

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