Il cosiddetto “decreto flussi” ribadisce ciò che è già stato introdotto dalle precedenti riforme in materia di immigrazione, in prima battuta dalla legge Turco-Napolitano (legge 40/1998) e in seguito dalla Bossi-Fini (legge 189/2002): il diritto all’accesso e alla permanenza nel nostro Paese sono subordinati al lavoro, il che significa che l’accoglienza e la possibilità di ottenere un regolare permesso di soggiorno da parte di una persona migrante dipendono direttamente dall’offerta di un contratto di lavoro. E poco importa se il lavoro che viene proposto in Italia nella stragrande maggioranza dei casi è un’occupazione in settori fortemente caratterizzati da informalità contrattuale, precarietà e dumping salariale.

Il decreto legislativo n. 20 del 2023 prevede lo smantellamento della protezione umanitaria e la negazione del diritto alla tutela, di norma invece garantito a livello internazionale: vengono così limitate le procedure di salvataggio per le Ong e abrogata di fatto la protezione speciale, che con i cosiddetti decreti Salvini aveva sostituito la protezione umanitaria, aumentando i casi in cui è prevista l’espulsione.

D’altra parte, fin dalle prime pagine del decreto, il governo Meloni stabilisce delle quote di persone che possono venir accolte in base alle esigenze dei settori in cui si registra un’effettiva mancanza di forza-lavoro. Settori strategici per l’economia nostrana che si contraddistinguono per essere terreno fertile per caporalato, sfruttamento e lavoro povero: parliamo della logistica (soprattutto le sue cooperative subappaltanti), il turismo, l’edilizia, l’agricoltura, la cantieristica navale, la meccanica e le telecomunicazioni. L’Italia accoglie, sì, ma solo braccia e carne da macello.

La quota complessiva stabilita per quest’anno ammonta a 82.705 unità: 44mila sono destinate al lavoro stagionale (sostanzialmente agricolo o nel settore alberghiero); 30mila unità sono previste per lavoro non stagionale, e sono posti riservati a migranti provenienti da una lista di paesi extra-europei cooperanti con l’Italia in materia di immigrazione. Una piccola quota è riservata agli accessi di lavoratori autonomi. A 7000 persone è riservata la possibilità di convertire il proprio permesso di soggiorno di varia natura (motivi di studio, stagionali o permessi Ue) in permesso di soggiorno per lavoro non stagionale.

La strategia del governo è quindi quella di suddividere le persone migranti in base alla loro funzione, senza strutturare percorsi “emersivi” per chi non ha il permesso di soggiorno prima di arrivare nel nostro Paese. Oggi ci sono migliaia di migranti che vivono e lavorano in Italia da anni e che stanno ancora aspettando una risposta per alla loro domanda (sanatoria del 2020).

Come viene puntualmente indicato dal Rapporto 2022 Caritas-Migrantes, “l’alto livello di occupabilità dei migranti è in gran parte dovuto alla loro disponibilità a ricoprire lavori manuali non qualificati, spesso sottopagati: questo provoca un fenomeno di etnicizzazione delle relazioni di lavoro”. Uno scenario molto diverso rispetto a quello paventato dal Ministro Lollobrigida sul rischio di una “sostituzione etnica”.

Questo elemento di maggiore ricattabilità dei migranti nel mercato del lavoro ha favorito una progressiva diffusione di forme di lavoro non-standard, di rapporti di lavoro privi delle principali garanzie e di tutele di base, rendendo ancora più fragile la condizione esistenziale dei lavoratori migranti. In Italia, su 100 lavoratori, circa 18 sono classificati come lavoratori vulnerabili, perché precari con contratti a termine, collaboratori autonomi o dipendenti sottoposti ad un regime di part-time involontario. In termini assoluti si tratta di un esercito di 816mila lavoratori.

Sarà anche per questo che forse i giovani stranieri (specialmente le ragazze) sognano un futuro in altri Paesi europei, anche più dei loro coetanei italiani (59% contro il 42%), nonostante il numero di giovani italiani residenti all’estero, dai 18 ai 34 anni, si attesti ormai a 1,2 milioni su un un totale di 5,4 milioni di persone che vivono in altri Paesi, di cui una fetta consistente è costituita da pensionati. In Italia i migranti residenti regolari sono invece circa 5,2 milioni, a cui corrisponde una crescita del tasso di occupazione superiore rispetto ai lavoratori italiani (+1,5% contro lo 0,8%); a loro si deve l’avviamento di 136.312 imprese a conduzione femminile straniera, pari all’11,6% delle attività guidate da donne e al 23,8% delle imprese fondate da immigrati.

Il governo Meloni sembra non voler ammettere che il lavoro migrante regge in modo determinante una buona fetta del sistema Italia, essendo impiegato nei servizi essenziali o altamente strategici; inoltre, il governo non esprime la minima volontà politica di offrire loro una prospettiva strutturata di inserimento sociale per una vita dignitosa: ciò che conta è tenere sotto controllo questo bacino di forza lavoro, grazie alla ricattabilità e alla repressione.

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