A volte mi chiedo se valga davvero la pena di proseguire a postare testi da bastian contrario, vista la reazione che scatenano in buona parte dei lettori. Taluni attratti irresistibilmente dall’opportunità di avere il blogger a un tiro di sputo, altri infastiditi dalla mia scrittura (barocca? E perché non gotica o neoclassica?); soprattutto molti irritati dalla messa in discussione di certezze per loro rassicuranti. Per cui mi sono calati addosso gli addebiti più improbabili.
Di recente quello di “nordista leghista” perché criticavo il furore padronale del boss di Napoli Calcio (al pari di colleghi milanesi e torinesi). Ultimo di una serie di insulti, da servo del Pd a comunista, destrorso o fan di Beppe Grillo. Tutto perché – all’alba dei 76 anni – continuo a praticare il vecchio adagio del “non bersela”. Così come intendo fare quest’oggi prendendo le distanze da Capuleti e Montecchi riguardo a quella che Lucio Caracciolo definisce la “slavomachia infinita”. Ossia la diffusa convinzione che lo scontro in atto tra Kiev e Mosca sia risolvibile con il semplice cessate il fuoco, imposto mediante due strategie contrapposte: ripetere la giaculatoria “pace, pace” e così smuovere la torpida opinione pubblica mondiale, oppure fornire armi all’Ucraina per ridurre Putin a più miti consigli.
Purtroppo – a ben vedere – la faccenda è molto meno semplice della rappresentazione circoscritta a un (pur terribile) episodio di insensatezza bellica: la messa in movimento sempre più vorticoso delle placche tettoniche del sistema-Mondo, che determina la frantumazione degli equilibri che consentirono a tre generazioni di europei una vita sicura e confortevole, quali famigli alla corte di Washington. Condizione invidiabile, sia per sicurezza materiale (security) che per incolumità personale (safety), meno per indipendenza nazionale, cancellata dallo stop all’America Felix dell’11 settembre 2001, con il crollo delle Torri Gemelle; poi dall’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022.
Date che segnano la fine della centralità planetaria americana, evidenziata da due vicende interrelate: gli effetti suicidi sulla coesione sociale Usa della cosiddetta globalizzazione finanziaria clintoniana, che ha accelerato le dinamiche divergenti in un assetto già di per sé a forte tasso di disuguaglianza; l’incombente rischio default per un’economia altamente gravata dai costi di mantenere in piedi un’insostenibile assetto imperiale, che la perdita di egemonia monetaria del dollaro accelera ulteriormente. Come ha scritto nel suo linguaggio fiorito l’ultimo numero della rivista Limes, “con la fine della pace inaugurata dall’invasione russa dell’Ucraina noi tutti occidentali della carovana americana abbiamo varcato il limes e siamo finiti nel limen, Dal limite alla soglia”. Siamo entrati in una terra inesplorata dove si susseguono moti tellurici. Per cui si potrà pure mettere una pezza sullo scontro per reciproche procure (sono-americane) tra Putin e Zelensky; fermo restando che il crescente disordine mondiale, tendente al caos sistemico, è destinato a riemergere altrove, rispetto alla Crimea o al Donbass. E la Terza Guerra Mondiale può incontrare nuove Sarajevo ovunque; dal mare della Cina o nel continente africano, per la questione Taiwan o il controllo delle terre rare.
Insomma, la mobilitazione per la pace ripete il classico fraintendimento – per dirla all’anglosassone – del “Can’t See the Forest for the Trees”. Ossia perdere di vista il quadro generale. Ciò a cui nessuno sembra prestare attenzione, nella promozione di contrapposte banalità. Mentre già una trentina di anni fa un grande intellettuale – Ralf Dahrendorf – annunciava la catastrofe sistemica nel suo prezioso librino “Quadrare il cerchio”: “Combinare benessere economico, coesione sociale e libertà politica è la sfida che si trovano di fronte le società del Duemila. Alcune hanno già rinunciato alla libertà individuale, altre rischiano di perdere il benessere o la coesione sociale. Riusciremo a quadrare il cerchio?”. La minaccia già allora incombente sulla società civile mondiale rappresentata dalla globalizzazione; acuita nella post-globalizzazione che lascia sul terreno la carcassa dello Stato-nazione: la placenta in cui si sono ricreate le centralità egemoniche a Occidente per mezzo millennio.
In questo vuoto, nello smarrimento di qualsivoglia punto di riequilibrio e governo delle dinamiche in atto, permane un terribile bisogno di ingegneria politica su scala globale. Ma le sedi preposte a tale compito manifestano uno sconfortante silenzio. Oppure le inutili semplificazioni di un’epoca che antepone la comunicazione linguistica alla riflessione culturale. E – come disse quel tale – “il linguaggio è un mezzo per celare i nostri pensieri”. O – piuttosto – sterilizzarli.
Nel frattempo noi europei rischiamo di trovarci a dover rimpiangere l’egemonia americana di cui ci saremo liberati.