A ventimila leghe sotto il mare esiste una umanità impaurita e smarrita, vulnerabile più che fragile, che attende una liberazione che soltanto la politica può produrre. La politica, cioè la partecipazione collettiva ai comuni destini, ha senz’altro prodotto liberazione il 2 giugno 1946, dando un colpo epocale alla concezione segregazionista della società: vinse la Repubblica contro il Regno, perfezionando così l’annientamento del fascismo; votarono per la prima volta tutte e tutti, consacrando così il protagonismo delle donne.

E’ di questa politica capace di produrre liberazione che abbiamo ancora bisogno oggi e di sicuro non può esserne artefice una destra che si continua a scaldare al fuoco infausto della fiamma fascista.

Ventimila leghe sotto il mare, cioè nel profondo della società italiana, lontano dall’effervescente superficie battuta dal sole, ci sono per esempio i ragazzi di un parroco di periferia di una grande città come Torino, che hanno paura di andare a scuola perché c’è spaccio, c’è ricettazione di merce contraffatta, e chi si impiccia rischia di finire male. Ragazzi che imparano prima la sintassi dell’omertà mafiosa che quella della denuncia civile, che capiscono molto bene cosa sia una banda senza imparare cosa sia un collettivo, che comprendono come si agisca attraverso la violenza prima che attraverso la parola. Che di parole infine rischiano di apprenderne sempre meno, non cogliendone più l’importanza.

Ventimila leghe sotto il mare ci sono minori e donne che subiscono quotidianamente la violenza domestica di un contesto criminale che pare non avere alternativa, pare un destino ineluttabile, anche a causa delle intermittenze dello Stato che taglia i servizi sociali, compromettendo la propria credibilità o che tarda a dare risposte precise come quella attesa e nota come “terza via”, che consenta a donne e bambini di ottenere la protezione dello Stato nel recidere quei legami tanto velenosi quanto pericolosi, come la storia di troppe donne ha purtroppo dimostrato.

Ventimila leghe sotto il mare ci sono braccianti agricoli (e non soltanto agricoli), spesso di origine straniera, che il datore di lavoro hanno imparato a chiamarlo padrone, in un Paese che nonostante tutta la prosopopea del “Made in Italy” proprio non ci riesce a fare a meno degli schiavi.

Ventimila leghe sotto il mare ci stanno boss mafiosi feroci e intraprendenti, che campano alla vecchia maniera di droga, pizzo e gioco d’azzardo, che possono far perdere le proprie tracce come ha fatto Raduano, evadendo dal carcere di massima sicurezza di Nuoro (che fine ha fatto?), che eliminano gli avversari con esecuzioni pubbliche come è successo a Foggia e a Napoli, che massacrano innocenti senza curarsene, come a Cassano allo Ionio dove a fucilate è stata uccisa Antonella Lopardo.

Racconta Falcone, in Cose di Cosa nostra, che un giudice andò in carcere a incontrare il boss Frank Coppola e gli chiese cosa fosse la mafia. Il boss rispose: “Ci sono tre giudici che vogliono fare il Procuratore. Il primo è intelligentissimo, il secondo è sponsorizzato dalla politica, il terzo è un cretino e sarà proprio quest’ultimo ad avere quel posto. Ecco cosa è la mafia”.

Forse questa mafia non c’è più. Forse un certo metodo mafioso è semplicemente diventato parte integrante del modo di esercitare il potere tra cordate e clientele all’interno dello Stato. Ma non per questo la mafia rimasta a fare mafia fa meno paura, è meno odiosa, cancella meno diritti.

E’ una mafia che si è adattata a vivere sul fondo limaccioso – a ventimila leghe sotto il mare appunto – una mafia però ancora capace di corrompere la democrazia perché, soprattutto in certi contesti, riesce a saldare alleanze con pezzi di imprenditoria e di politica, garantendosi affari e procacciando voti. Come hanno documentato tanto inchieste giudiziarie, per esempio nel torinese (vedi Carminius-Fenice), quanto inchieste giornalistiche, per esempio nel basso Lazio (vedi Laboratorio criminale sulla impressionante ramificazione del clan Casamonica-Di Silvio, tra Roma e Latina, scritto da Omizzolo e Lessio per ed. People).

Riuscirà questa Commissione parlamentare antimafia, guidata dalla on. Colosimo, a trasformarsi in Nautilus, arrivando fin sul fondo? O avranno ragione Nando dalla Chiesa e Gian Carlo Caselli che – il primo su questo stesso giornale, il secondo su La Stampa – non hanno fatto mistero di ciò che pensano di questa presidenza: altro che Nautilus, al massimo un pedalò?

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