In occasione dell’appuntamento col 2 giugno, che nel 1946 vide il referendum istituzionale e l’elezione a suffragio finalmente universale dell’Assemblea Costituente, assistiamo a tanta retorica e a tante celebrazioni formali, anche se non mancano riflessioni più serie e legittimamente preoccupate. Infatti, la Costituzione oggi è a rischio. Non in quanto possa essere abolita, ma perché ne viene eroso il valore del dettato, sia attraverso la quotidianità della vita politica sia attraverso norme che snaturano la concezione della democrazia elaborata dalle culture antifasciste, dapprima nella clandestinità, poi in consessi diversi – finalmente liberi – e infine nell’Assemblea eletta il 2 giugno 1946.

La pratica politica corrente dimostra un assunto noto, ma spesso sottaciuto, perché ignorarlo consente di deresponsabilizzare politici e partiti politici: l’Italia ha conosciuto stagioni con un pessima costituzione ma un’ottima politica e altre con un’ottima costituzione e una pessima politica. Nel dopoguerra, fino al maggio 1946, la costituzione era ancora il (per tanti motivi) vecchio Statuto albertino, per di più rimaneggiato dal regime fascista per adattarlo alle proprie esigenze, eppure la vita politica della nazione era straordinariamente ricca e produttiva e legata alla vita reale, e al tempo stesso capace di volare alto.

La società si muoveva, ricostruiva il proprio tessuto dopo le devastanti esperienze del fascismo e della guerra. La vita dei partiti si svolgeva, intensa, in tre articolazioni: la forte partecipazione, tale da renderli effettiva espressione della loro base sociale; la febbrile elaborazione teorica; l’alacre confronto e scambio con gli altri partiti, con i sindacati e con tutte le altre forme di rappresentanza sociale. Non mancavano i conflitti, anche aspri, sia sociali che politici, ma lo sguardo era alto e i diversi soggetti puntavano alla costruzione di una democrazia – beninteso, non solo politica, ma anche economica e sociale, in grado di superare le vecchie democrazie liberali, anche nella consapevolezza di tre disastrosi fallimenti: quelli dell’Italia liberale, della Repubblica di Weimar e della Terza Repubblica francese.

Venne istituita allora la Consulta Nazionale, un organo nominato, una sorta di assemblea parlamentare in attesa della possibilità di indire elezioni. La sua composizione non era l’esito di un voto, ma era qualitativa. Ognuno dei partiti aveva il medesimo numero di deputati, partiti che alle elezioni avrebbero avuto il 35% dei consensi, come la Democrazia cristiana, e quelli che avrebbero ottenuto l’1,45% come il Partito d’Azione. Inoltre, raccoglieva rappresentanti di partiti che non erano stati partecipi del Comitato di Liberazione Nazionale, dei sindacati, di associazioni professionali, reduci ed ex parlamentari antifascisti.

Oggi possono apparire sorprendenti anche i criteri per la scelta dei rappresentanti dei partiti. Il Decreto Legislativo Luogotenenziale 30 aprile 1945, all’art. 2, stabiliva che: “Ciascuno dei sei Partiti del Comitato di Liberazione Nazionale designerà ventisei consultori. Di essi, dieci saranno scelti direttamente dalle direzioni centrali dei Partiti e gli altri sedici dalle direzioni stesse su proposta dei loro organi locali, sentiti i Comitati Provinciali di Liberazione della regione. Questi sedici consultori saranno scelti due per ciascuna delle seguenti regioni: Sicilia, Puglie, Campania, Lazio, Toscana; e uno, rispettivamente, per la Sardegna, la Calabria, la Basilicata, l’Abruzzo e Molise, l’Umbria, le Marche”. Per noi, in questo tempo, è un film di fantascienza:

1. i partiti, benché allora molto più forti di quanto non lo siano ora, accettavano che fossero stabiliti criteri per la scelta delle persone al proprio interno e che vi fosse anche un parere di soggetti esterni al partito stesso, come i CLN provinciali;
2. il confronto con le parti sociali era non solo previsto, ma intrinseco giacché esse erano parte dell’assemblea;
3. la rappresentanza era qualitativa, si doveva giungere a decisioni sulla base della qualità delle proposte e di come erano elaborate dalla discussione e dai lavori delle commissioni e dell’assemblea. E, valga ripeterlo, non in un periodo “tranquillo” ma di fortissime tensioni sociali e politiche, e nelle relazioni estere.

L’esperienza della Consulta, diretta filiazione e continuazione dell’esperienza della Resistenza, produsse una quantità di risultati, a partire dal voto alle donne.

L’attuale maggioranza ritiene, in quanto maggioranza, di poter assumere qualunque decisione, come se la democrazia fosse lo strapotere di chi vince le elezioni per cinque anni. Svilisce il Parlamento, considerato inutile perdita di tempo quando si hanno i numeri per governare, e ignora corpi intermedi e consultazione di ogni altro soggetto, siano essi i partiti di minoranza o le parti sociali. L’idea esplicita è il rafforzamento dell’esecutivo, drasticamente ridimensionando il ruolo delle assemblee elettive e degli organi di garanzia e di controllo, siano essi il Presidente della Repubblica o la Corte dei Conti.

L’attuale maggioranza considera la nazione come etnia, un popolo definito per sangue o per tradizione. Fingendo di ignorare – o, peggio, ignorando colpevolmente – che il termine etnia è ipotesi di studio in continuo divenire, non è la fotografia di un gruppo umano rigidamente definito, e che la tradizione non è mai una sola ed è sempre mutevole. In realtà, si intende imporre un modo di vita unico che corrisponde ad una concezione del mondo autoritaria e reazionaria.

Parimenti, l’idea che sottende le ipotesi di autonomia regionale differenziata corrisponde ad una simile concezione: ci sono territori la cui popolazione virtuosa non può sacrificarsi per altri territori meno capaci di produrre ricchezza. Come se esistessero differenze territoriali date e non processi storici in atto, come se il rapporto fosse tra territori che producono e lo Stato che ne drena le risorse. Si tratta di una concezione – elaborata dalla Lega oltre trent’anni fa – reazionaria, perché non pone al centro il patto di cittadinanza di cui lo Stato è proiezione, ma presunte comunità omogenee vessate dallo Stato. L’autonomia è un valore costituzionale, ma in quanto amministrativa, non come sovranità.

Oggi, il patto scellerato che dovrebbe tener unita la maggioranza è contro la Costituzione, perché prevede da una parte (Fratelli d’Italia) un rafforzamento dell’esecutivo talmente spregiudicato che non corrisponde a progetti legislativi dichiarati – premierato, presidenzialismo o chissà che altro – ma alla semplice concentrazione dei poteri; dall’altra parte (Lega), il regionalismo egoista che disegna alcune Regioni come dotate di una sovranità in contrasto con quella dello Stato, tale da minare l’unità nazionale e da aumentare le diseguaglianze. Invece di mirare a ridurre i divari territoriali, si propone di mantenerli ricorrendo alla frusta tesi della locomotiva del Nord, secondo la quale sostenere le regioni più deboli sarebbe un danno per il paese. Infine, per compiacere il terzo componente dalla maggioranza (Forza Italia), si ridimensiona il terzo potere delle democrazie, quello giudiziario.

Stagione triste, questa, per la Costituzione. E non perché oggi siano al governo i fascisti, o politici che discendono da quella storia; ma per ciò che fanno, per come stravolgono la Costituzione e ne snaturano i valori fondativi. E perché tanta sinistra ha ceduto e cede almeno in parte alle lusinghe di tali concezioni semplificatorie. Ma così come non è nata a tavolino, la Costituzione non si difende affermandone astrattamente le ragioni di principio, bensì facendone propri i motivi ispiratori e facendoli vivere nella pratica politica quotidiana. Lo so: è chiedere troppo, ma non esiste alternativa.

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