Il voto per la repubblica del 2 giugno 1946 non fu semplicemente il voto per un capo di Stato elettivo, e non più ereditario e a vita. Le donne e gli uomini che espressero la loro preferenza per la repubblica votavano in realtà per un sistema di valori democratici, che forse, in quel momento, si definiva quasi prevalentemente in negativo. Più che quello che ‘repubblica’ significasse in positivo, quello che era chiaro era che avrebbe dovuto significare tutto il contrario di quello che era stato il regime con la complicità sabauda. Era anzitutto una critica verso il passato, prima che una progettualità chiara per il futuro.

In questo senso ha ritenuto anche la Corte costituzionale quando, nel 1988, si è occupata, in una sua fondamentale decisione, di quali siano i limiti alle modifiche della Costituzione. Sul punto, il testo costituzionale si ferma a prevedere che non possa essere fatta oggetto di revisione la forma repubblicana dello Stato. Ma la Corte ha correttamente interpretato tale limite nel senso di ritenere che per “forma repubblicana” non si intende soltanto il carattere elettivo del capo dello Stato, ma tutto quel complesso di valori contenuti nei principi supremi e diritti inviolabili della Costituzione, a cominciare dai principi democratico, personalista, pluralista e lavorista.

Insomma, proprio tutti quei principi che, fino alla nascita della Repubblica, erano stati negati, e che – spiega la Corte – “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (sent. n.1146/1988).

Il dubbio che questi valori non coincidano del tutto con la geografia di valori di una certa nostra destra è legittimo – o almeno è legittimato da alcune recenti parole, opere e omissioni. Sicuramente, il senso della repubblica – e dunque della sua festa – è quanto di più lontano da quel vago sciovinismo dello slogan che è stato scelto per il 2 giugno di quest’anno: “Italiani, un patrimonio di valori”. Non esistono scelte verbali neutre. Di ogni testo va valutato sottotesto, intertesto, contesto, metatesto, eccetera. E quello slogan è del tutto in linea con la retorica nazionalista che il nostro governo di destra rivendica il diritto di impiegare.

D’altra parte, qualche settimana fa, la presidente del Consiglio aveva ricordato che “la Patria è una seconda mamma”, e sembrava per un attimo di essere tornati sui banchi del libro Cuore. Ora, sinceramente – superato un primo iniziale disorientamento davanti allo stucchevole lessico ottocentesco –, pur con la migliore volontà, si fa fatica a capire dove risieda la logica dell’analogia. È vero: ciascuno di noi nasce, per accidente, in una determinata comunità (nazionale), in cui ci sono dei doveri di solidarietà (anche) intergenerazionali, che peraltro vanno a beneficio di entrambe le parti. Ma che triste concetto di maternità se questo potesse essergli anche solo vagamente assimilato.

E ancora nei giorni scorsi, la presidente Meloni ha sottolineato come oggi, finalmente, il termine “patriota non può essere considerato più un’infamia”. A parte che Meloni si fa così interprete di una percezione valoriale che, spiace, ma non è di tutti. Ma è comunque interessante rilevare questo revanscismo anche lessicale, teso a recuperare e rivalorizzare tutto il vocabolario di quel milieu nazionalista che costituisce una delle costanti, senza soluzioni di continuità, della destra italiana nella storia repubblicana. Una continuità, d’altra parte, che è evidente sotto altri (ben più gravi?) aspetti, a partire dall’ipersalivazione per formule di legittimazione diretta del capo fino ad una certa fedeltà perinde ac cadaver alla scelta atlantista.

Il punto è che, come si diceva prima, le parole non sono neutre, ma portano in sé l’eco di tanti fantasmi. E se alcune parole erano state in qualche modo marginalizzate dal lessico democratico era perché di esse si era appropriata una certa parte, contro la quale era stata espressa (anche) la scelta di libertà del 2 giugno ’46. Tale appropriazione ha ancora, indubbiamente, un suo peso specifico, e non c’è da stupirsi che il loro impiego evochi inevitabilmente, come riflesso condizionato, il fantasma di cui si era intesi liberarsi.

D’altra parte già nel 1949, in alcune conferenze a Chicago, il più importante intellettuale cattolico di quei decenni, Jacques Maritain, notava, a proposito di ‘nazione’, che “la confusione tra nazione e società politica […] è stata una piaga della storia moderna”. E più incisivamente, sull’uso della parola ‘sovranità’, scoraggiandone l’impiego, richiamava che essa “continua sempre a connotare oscuramente il suo originario e autentico significato”: “I due concetti di sovranità e assolutismo sono stati forgiati insieme sulla stessa incudine. Insieme devono essere messi al bando” (J. Maritain, L’uomo e lo Stato).

Ma il fatto è che certi intellettuali cattolici di destra, i cattolici non li leggono, e piuttosto che la messa al bando che auspicava Maritain, oggi siamo piuttosto nell’epoca del ritorno del rimosso. Che – gli psicanalisti lo sanno – si presenta sempre sotto vesti più inquietanti di prima. Lo slogan “Italiani, un patrimonio di valori” un po’ sconta queste dinamiche, con quel puntellare la logica binaria ed escludente italiano-non italiano che tanto ricorda quella logica tribale amico-nemico (“Il nemico è semplicemente l’altro, lo straniero”, scriveva Schmitt).

Come se alla nostra identità (parola che pure tanto piace alla destra) non avessero contribuito e ancora contribuiscano tanti che, per un certa parte, sono non-italiani. E con quel sottile messaggio per cui i valori della repubblica sarebbero (solo) i valori degli italiani – che, per carità, può anche andar bene, a patto che si chiarisca che questi valori non sono certo “Dio, Patria e Famiglia” ma quelli della Costituzione, per i quali hanno fatto la loro scelta gli elettori nel ’46 e che restano sottratti alla possibilità di una modifica. Valori di inclusione, non di esclusione; valori di integrazione, non di omologazione; valori di apertura, non di chiusura.

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