Quando Spyros L. Vrettòs mi recapitò i suoi libri, trovai qui una casa, trovai un paesaggio. È questo un dato forse molto personale, perché la vena d’oro della sua percezione nel sentire i sensi, nel portarli altrove, nel riversarli sulla pagina battezzati di luce nuova, è ciò che più cerco in poesia. E sempre con stupore, pagina dopo pagina, emergevano immagini legate alla sua poesia da un’invisibilità palpabile di migliaia d’anni. Sentii risuonare i passi del Coro dell’Antigone di Sofocle, accolsi come rinnovate le parole della Sentinella, nel prologo dell’Agamennone di Eschilo: l’alto canto e il più umano canto. Il silenzio del tragico, di contro allo strepito con cui oggi tendiamo a urlare quanto non siamo più capaci di comprendere. Le parole del pensiero e del sentire. Le parole di tutti, che in pochi sanno pronunciare.

***

Non leggete erroneamente il mio silenzio

Non leggete erroneamente il mio silenzio,
non mi interpretate dalle esigue smorfie
e dagli spasmi dei miei muscoli,
non tempratevi nella mia passeggera debolezza d’apparire,
non vi poggiate come fossi roccia
che vi leviga l’onda,
non ditemi di sostare dal lato giusto della vostra Storia,

parlatemi del lato giusto di noi stessi,
parlatemi della forza di sostenersi sulle proprie gambe
mentre le gambe s’inabissano in paesaggi d’orrore,

non urlate ancora che la libertà è nata
quasi morisse appena viene al mondo,

non annunciate altre fini e nuovi inizi
perché non è giunta nessuna fine nessun inizio è apparso,

ditemi ditemi
di questa contrazione nei nostri volti
che ci agisce come morti,
di questo dondolio della vita che ci guida nella luce,
ditemi come il sangue torna a circolare in noi
e non fuori,

di queste due ultime cose parlatemi
perché solitamente lì m’inganno.

(inedito)

I frutti rossi

Ora che tace il vento
cosa risplende, e di chi?

E tutto, mentre ormai lasciamo casa per altrove,
tutto si fa natura aperta
che ci accompagna un po’
con un fiume di frutti rossi.

È l’ora mia di dire
di dire e di gridare:

A me comunque basta
che qualcosa qui mi renda umano
– e non m’importa di capirlo.
E cadano selvaggi i rossi frutti
e in uno spazio selvaggio siano a precipitare
e cada lo spazio selvaggio ove gli pare,
ma v’è nel loro volo un ritmo
che sempre qualcosa vuol significare.

(da Accadde, 2007)

Il fotografo Robert Capa risponde ai giornalisti

Che le mie mani tremassero di paura
non è vero.
Che volessi comunicare un sentimento
e perciò le scattai sfuocate le fotografie,
neppure questo è reale.

Ma in nulla devo mostrarmi sicuro
se non che mi vestii da soldato
e sbarcai in Normandia.
A migliaia intorno a me i vivi
migliaia anche i morti,
mentre io non sapevo a chi appartenere.
Come sapere perciò se provavo paura?
Come escludere il sentimento
mentre l’occhio e non la macchina
scattava le fotografie?

Vidi la spiaggia. Mi avvicinavo.
Non mi ricordo neppure quante ne scattai.
Forse un centinaio? Solo undici? Chi può dirlo?
E non chiedetemi per quante ore là io fui.

Il tempo non si misura con certezza
quando da ogni parte cadono proiettili.
Se avessi sentito con chiarezza i click del mio occhio
avrei potuto misurarlo il tempo,
ma no, non li sentivo
perché il mio occhio scattava silenzioso.

Omaha si chiamava la spiaggia.
Tanta gente, voglio dire morti a migliaia.
Il sangue nero, nerissimo lo vedevo
quasi lo sviluppassi subito su carta
quasi all’istante lo stampassi.

Mi credetti un cane che soffre di daltonismo
che vede tutto in bianco e nero.
Nero il sangue
mare nero
bianco il cielo e tuttavia nero
neri i fucili
bianco lampeggiante i proiettili
un po’ di bianco dalle anime
che abbandonavano di corsa i loro corpi,
delirium tremens di nero e bianco assieme
gli occhi dei soldati.

Ch’ero un cane,
scrivetelo ciò che ho detto,
e che i colori tutti s’eran spenti
e tacquero assieme al paesaggio.
E che scattai con gli occhi.
Non ricordo la macchina
o di aver avuto mani.
Riguardo le mani, ho memoria di un soldato
della sua mano tranciata
e di un altro più in là a raccoglierla.

Ch’ero cane e non uomo,
scriverete che questo ero.
E odore solo che detestavo,
ciò che ho detto scriverete.
Odore, odore di nero sangue
che mi balzava addosso.
E che alla fine mi hanno sommato ai morti
perché come morto scattavo le fotografie.

E adesso avvicinatevi.
Guardate tutti dentro ai miei occhi.
Non vi vedete in bianco e nero?
Non apparite anche voi sfuocati dentro la mia profondità?

Siate anche voi, con me, annegati a Omaha.

(inedito)

***

Spyros L. Vrettòs è nato Lefkada (Grecia) nel 1960. Ha studiato Legge ad Atene e vive e lavora come avvocato a Patrasso. Ha pubblicato dieci raccolte poetiche, un’antologia, tre saggi e due libri di racconti. Le prime cinque raccolte sono state tradotte in inglese da Philip Ramp (Collected Poems, Shoestring Press, 2000). In Italia è comparsa un’antologia con traduzione di Massimo Cazzulo (Il postscriptum della storia, Atelier, 2005). Dal capitolo “Medea” della raccolta Accade è stato realizzato il lavoro teatrale Medea di Màros Galani. Dal libro di racconti Ένας αόριστος άνθρωπος (Un uomo qualunque, Gavriilidis, 2016) è nato uno spettacolo teatrale, per la regia di Artèmidos Grybla (Θέατρο act, 2018). La raccolta Διαπραγματεύσεις (Trattative), tradotta da Chiara Catapano per le Edizioni Puntoacapo (2022), ha vinto in Italia il Premio della Critica Sandomenichino.

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