È nato un Robecchi ai Quartieri Spagnoli e non ce n’eravamo accorti. Si chiama Antonio Menna e il suo ultimo romanzo, La bambina senza il sorriso (Marsilio), è uscito quasi tre anni fa (causa Covid le presentazioni non ci sono state, ndr), ma per buona sorte ne abbiamo incrociato improvvisamente le pagine. Ebbene il risultato è un libro che pare una calamita. Ci piazzi gli occhi sopra, procedi rapido e assorto, te la ridi di gusto, anche a tono alto, assapori un atmosfera da disincantato e ilare giallo che profuma di caffè e professionale detection, ti abbandoni allo srotolarsi fluido di mistero, sentimento e socialità da basso napoletano, infine soddisfatti proprio all’ultima riga, all’ultima parole, perfino ci si commuove. Non per evitare scorciatoie nell’analisi del testo sostituendolo con pancia e istinto, ma La bambina senza il sorriso è uno spasso letterario vero. Menna è uno di quegli chef di provincia che lavorano con cura, riguardo e passione senza che i commissari della Michelin si siano mai ricordati di andarlo a visitare per la stella. Eppure gli ingredienti per stare ai piani alti ce li ha tutti: intreccio velatamente complesso, vis comica irresistibile e politicamente un filino scorretta, varietà e distinguibilità di ogni singolo personaggio del racconto, ritmo finemente equilibrato non solo nello sviluppo narrativo in sé ma anche nella lunghezza dei singoli capitoli (4-5 facciate l’uno e mai una di meno o di più).
La bambina senza sorriso è una sorta di terzo capitolo di quella che potrebbe diventare una minisaga del giornalista free lance (cioè pagato a cottimo) Tony Perduto, evocativo nome sorrentiniano senza troppa reverenza verso la prosa ermetica pop del regista (anzi c’è pure il maresciallo Pallone… ). Tony è un apparente schivo e timido 35enne (“in realtà io non sono attratto da niente e da nessuno. Vorrei vivere io solo sul pianeta Terra”), un po’ impacciato nell’esprimere i propri sentimenti con le donne che gli piacciono, appassionato cronista di nera e bianca intento a raggranellare lavoretti intellettuali per fare uno stipendio pieno. E in medias res, nemmeno il tempo di arrivare a trenta righe, all’appartamentino naif di Perduto una bambina suona al campanello. Nessuna emozione, nemmeno un sorriso, la determinata piccoletta chiede a Perduto – lo scoppiettante dialogo tra i due è l’amo travolgente che ti fa entrare nel racconto per non uscirne più – di ritrovare il padre scomparso così da un attimo all’altro mentre in due girellavano al mercato.
Non sta a noi segnalarvi la anomala increspatura della bimbetta che incuriosisce in ogni gesto che fa e in ogni parola che dice, perché come nel capire i numeri dei bravi maghi l’importante è sempre osservare i dettagli prima che inizi il numero di magia vero e proprio. La soluzione sta sotto gli occhi di tutti, ma Menna, anzi Tony ci accompagna con efficace disinvoltura attraverso i vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli, nei baretti, sui tavolini, tra fruttivendoli e librerie, poi ai piani alti di qualche studio professionale elegante, e ancora verso Bagnoli tra le rovine dell’Italsider. Sfilano così la moglie disinteressata (nemmeno ha denunciato la scomparsa) del commercialista Maiorano, il suocero potente e vero villain del libro, delinquenti pericolosi di ogni età, nonché tante ex amanti dello scomparso. Anche se è il coté personale ed intimo di Perduto a regalare alleggerimenti di pregio alla detection con la buffa e leggiadra apparizione della mamma nel suo appartamento e l’amica Marinella, medico dal posto fisso, orologio biologico che trilla, pronta alla fuga professionale in Francia solo perché Tony da anni si rifugia in un’amicizia che è stretta per tutti e due. La bambina senza sorriso, poi, è anche, in molte pagine, soprattutto iniziali, uno spaccato adamantino e franco sul famigerato, corruttibile, manipolatorio mondo del giornalismo, perlopiù locale, visto dall’angolo del collaboratore a cottimo ma appassionato. “Ma adesso che la voglia mi è salita come un caffè, che l’idea di come attaccare l’articolo si è chiarita, adesso che mi metto a scrivere, so che questo mi nutre, e nient’altro mi piace di più”, spiega Tony per far capire cosa significhi rimanere attaccati al pezzo anche quando la paga è da fame. Da non dimenticare, infine, l’uso di molte espressioni che cascano buffe dal dialetto napoletano (“prussò, prussò” per dire professore, ad esempio) in chiave di caratterizzazione spinta ma mai banalmente pittoresca, mentre il protagonista comunica in un italiano pulito.