Nelle piccole imprese si verifica frequentemente il fenomeno, contrariamente a quanto accade nelle grandi aziende, di essere di fronte a una struttura gerarchica-piramidale più o meno schiacciata, in cui quelli che obbediscono sono meno di quelli che comandano. Pertanto quando (spesso) si affronta il problema dei rapporti interpersonali in queste realtà, ci si concentra sulla leadership e sull’arte del comando.

In tale contesto gli ordini che giungono dai nostri superiori, spesso con la duplice maglietta di proprietario e manager, non sempre sono saggi, ponderati, condivisi e comprensibili. Anzi più volte ci sembra di non avere un capo perfetto. È troppo autoritario, sia nei modi (a dir poco “bruschi”), sia nei contenuti (non ci spiega il senso e gli obiettivi delle sue direttive).

Ma siamo davvero sicuri che sia il nostro capo ad essere autoritario? Nel rispondere a questa domanda possiamo incappare in un primo errore. Lo commettiamo in tutti i casi in cui questo giudizio è basato per lo più sulle nostre precedenti abitudini e sui contesti relazionali fino allora conosciuti. Se si pensa, ad esempio, alle esigenze della marina militare britannica di quattro secoli fa, il confine si sposta: ciò che oggi sembra dittatoriale allora non lo era. Una nave da guerra richiede molta disciplina. I subordinati non hanno e non devono avere il tempo per domandarsi il senso dei comandi. Questi non vanno messi in discussione né vagliati. Vanno semplicemente eseguiti. L’unica eccezione è costituita dagli scenari in cui gli ordini in questione sono lesivi degli obiettivi della squadra o della missione (ma siamo nelle condizioni di giudicarlo?).

Così come se siamo stati abituati in famiglia a non avere un contraddittorio, ad essere accontentati su tutto, a non ricevere valutazioni negative, allora anche eventuali disposizioni o istruzioni fornite dal parroco di quartiere possono sembrare dispotiche. Insomma, un subordinato deve sempre tenere presente questo rapporto-indice nel valutare se lo stile del suo “comandante” è autoritario o meno: livello di autoritarismo del contesto/stile di comando del suo superiore.

Quello che si tende ad attribuire “al carattere” burbero e autoritario del capo può non essere altro che lo stile tradizionale di comando in quel nuovo mondo. In altre parole, le caratteristiche permanenti delle persone non vanno confuse con quello che è il risultato di temporanee circostanze esterne.

Aver superato questo primo potenziale “errore” non implica affatto accettare di tutto. Capire e prendere atto del mondo non vuol dire subirlo. Degli ordini dei vostri capi possono essere veramente assurdi, sia nella forma che nella sostanza. Per “smascherare” queste assurdità dovete mettervi nei loro panni e cercare di capire perché si comportano così. Attenzione, ho detto di “mettersi nei panni degli altri”, non di “essere empatici”.

Per vedere le cose dalla prospettiva altrui dobbiamo decentrarci e cercare di scoprire che cosa il nostro capo vuole, i suoi scopi, insomma quello che si aspetta veramente da noi e dal mondo. Se invece usiamo l’empatia, si mette in moto la com-passione, e cioè la capacità di scovare e sentire le emozioni altrui, innescate dalle interazioni con noi. La prima delle due tecniche è più efficace per analizzare i comportamenti del capo. Se ricorriamo invece all’empatia e alla com-passione finiamo per capirlo, giustificarlo e, forse, per accettarlo così com’è. Magari ci piace anche.

La strategia del mettersi sul punto di vista altrui è quindi più efficace e astuta. Permette di manipolare (sì, avete letto bene) il capo, rivolgendogli contro le sue stesse armi. Insomma l’empatia va bene in una negoziazione tra pari. La fredda strategia del cambio di prospettiva ci lascia più spazio di manovra se abbiamo a che fare con relazioni asimmetriche. In fin dei conti un capo che non sa fare bene il suo mestiere è anche un capo stupido. Ma soltanto guardando il mondo con i suoi occhi potremo capire la natura della sua stupidità.

Certo il miglior consiglio sarebbe quello di cercare di cambiare capo perché non sempre è possibile obbedirgli “in modo intelligente”. Ma a quanti è consentito mandare il proprio stupido capo a quel paese?

Ricordate, però, che questo capo incapperà di sicuro in fallimenti. E dato che ogni capo ha un capo – legge inflessibile di ogni organizzazione (anche piccola) – se in voi c’è almeno un po’ di perfidia, potete assaporare la vendetta (che deve essere rigorosamente silenziosa e fredda). Se siete machiavellici, potete contribuire a costruirla. E tuttavia essere cattivi quasi mai è razionale sui tempi lunghi.

Se poi il livello di stupidità è patologicamente elevato non avete alternativa: o dovete portare pazienza o siete obbligati a cambiare azienda. Dipende dal vostro psicologo.

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