Cinema

“Per tutta la vita ho voluto essere un gangster”, Martin Scorsese scherza e racconta i segreti dei suoi film

di Davide Turrini

Silenzio, parla Martin Scorsese. Per qualche istante, nell’attesa che il regista di Taxi Driver entri da una porta laterale del cinema Arlecchino di Bologna, i circa 480 spettatori presenti si ritrovano in un singolare momento di silenzio che dura parecchi secondi, forse anche una quindicina. Ascesi, contemplazione, massimo rispetto poi standing ovation. L’80enne regista newyorchese, fresco dalla passerella glamour di Cannes con Killers of the flower moon, conclude a Bologna la sua settimana “italiana” iniziata a Roma prima dal Papa per confessare un film su Gesù (c’era già L’ultima tentazione di Cristo, ma erano comunque altri tempi e altri papi) poi per un lungo bagno di folla all’aperto al Teatro Scola di Villa Borghese e ancora l’incontro riservato con gli allievi della CSC – Scuola Nazionale di Cinema. A penzolare tra Roma e Bologna la rassegna Carta Bianca che ha visto Scorsese accoppiare a diversi suoi film alcuni titoli che lo avrebbero ispirato. E all’Arlecchino dopo il silenzio che si riserva solo ai santi ecco Quei bravi ragazzi (Goodfellas) preceduto da Colpo Grosso (Ocean’s eleven) del 1960 diretto da Lewis Milestone con Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis Jr. ovvero il celeberrimo “Rat Pack” che tra gli italoamericani tirava assai.

Per tutta la vita ho voluto essere un gangster”, scherza Scorsese. “Quando ero ragazzo l’idea di stile, di spavalderia, dell’essere alla moda, l’esempio ideale di uomini era l’Olimpo degli attori di Ocean’s eleven. Sinatra, Martin, ecc… Loro erano i modelli da seguire. Tra l’altro è buffo perché all’epoca, nella vecchia Las Vegas che oggi non c’è più, ci andavano gli attori e i gangster mentre oggi ci vanno le famiglie. Las Vegas l’ho poi ritratta in Casino – dove recitano molti attori di Goodfellas – mentre con Quei bravi ragazzi ho come reso glamour la figura del gangster”.

Scorsese va così ancor più a fondo su quel film che in qualche modo il suo film più completo dai tempi di Toro scatenato e dopo un decennio claudicante: “Il gangster movie prevede ascesa e caduta del protagonista, un meccanismo universale e senza tempo. In Quei bravi ragazzi però quello che gli spettatori non si aspettavano era lo humor, tanto che molti si arrabbiarono. Ci diedero degli irresponsabili. Ed è qui che torna l’annosa domanda: quale responsabilità deve avere l’arte nei confronti del pubblico? Io volevo mostrare la vita di questi gangster nel modo più realistico possibile e lo humor fa parte dell’essere umano. Penso spesso ad una scena di guerra ritratta nel fermo immagine di due soldati, uno tedesco e uno russo: sembra che danzino. È divertente, ma non lo è, e di nuovo lo è”.

Il film che regalò a Joe Pesci l’Oscar come attore non protagonista non era affatto imperniato sulle élite criminali: “Volevo ritrarre i gangster di strada, perché io vengo da lì, da Little Italy e ho voluto ritrarre quello spirito. Pensate che assistevo a processioni religiose di ogni tipo: San Gennaro, San Ciro, San Rocco e San Gandolfo (era il santo di Polizzi Generosa, il paesino siciliano di mio padre). Nicholas Pileggi, che ha scritto con me il film, mi ha raccontato di una persona che durante una di queste processioni marciava scalza e pregava il santo affinché gli desse la forza per ricominciare a rubare”. Scorsese ha poi spiegato il turbine visivo, quel rullare continuo che sono le immagini di Goodfellas: “Ho aumentato la velocità del film sempre di più, finché non si rompe. Volevo che il pubblico rimanesse appiccicato allo schermo in ogni scena” e mentre lo dice il regista italoamericano muove la mano destra per aria formando un cerchio come se stesse facendo roteare una frusta. Maestro Scorsese lo è anche quando ricorda cosa sia per lui il cinema: movimento di camera, composizione dell’inquadratura, montaggio. E per Taxi Driver, accoppiato ad uno dei titoli di Michael Powell come The tales of Hoffman, mostra tutta la sua talentuosa audacia: “I suoi movimenti di macchina sui ballerini sono il modulo base per il mio cinema. Come Powell stringa sugli occhi dei suoi protagonisti torna all’inizio di Taxi Driver sugli occhi di De Niro. Evidentemente non è lo stesso movimento o inquadratura ma è qualcosa che ho interiorizzato e ripetuto”.

La rassegna Carta Bianca, e la presenza di Scorsese prima a Roma poi a Bologna ha, infine, fatto correre qualche voce tra i corridoi sia tra le stanze dell’istituzione felsinea che nell’infernale tourbillon festivaliero romano. Infatti in entrambi i casi a dirigere l’orchestra sia sul palco che nel retro è stato il di verde vestito (stessa giacca e stesse calze in entrambi le città per non far torto a nessuno) Gianluca Farinelli: sia direttore della Fondazione Cineteca di Bologna (dal 2000) che presidente della Fondazione Cinema per Roma (al 2022). Un doppio incarico con gestione di cospicui finanziamenti pubblici che richiede un equilibrismo gestionale che non ha precedenti in Italia. Ad ora a Bologna, dopo aver accentrato la quasi totalità della visibilità e dell’immagine di Cineteca e Cinema Ritrovato sul proprio importante operato, il Farinelli papa oltre il Tevere rischia di creare un buco al centro di ogni ipotesi culturale futura cittadina; mentre a Roma l’ambientino che si sta formando attorno al neo presidente è di quelli pepati, tanto che il primo colpo di fioretto l’ha sferrato nientemeno che Dagospia segnalando “con malizia” come alla Casa del Cinema della capitale dal 5 maggio al 6 giugno siano arrivati il 30% di titoli in programma provenienti dalla Cineteca di Bologna: “Non sarà che il buon Farinelli si sia già abituato al ponentino romano?”.

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