“Im/paziente” è una esplorazione femminista del cancro al seno realizzata da Maelle Sigonneau e Mounia El Kotni. Maelle, cittadina francese, ha 33 anni quando scopre di avere un cancro metastatico al seno: uno di quelli «brutti» a cui difficilmente si sopravvive e di cui è più difficile sentir parlare. Quel che rende politica la sua vicenda personale è l’aver trasformato l’esperienza della malattia in un oggetto d’indagine. Una tra le migliaia di storie che rientrano nella “epidemia non infettante” – così l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) definisce la diffusione del tumore, la prima causa di morte per gli uomini e la seconda per le donne, in Francia come in Italia.

Ad accompagnare Maelle in questa indagine è un’antropologa medica, Mounia El Kotni. Insieme progettano un podcast e un libro. Il podcast viene diffuso (non senza incontrare ostacoli) nel 2018. Sarà Mounia, dopo la morte di Maelle, a condurre a termine il progetto con la scrittura del libro, edito in Francia nel 2021, da poco uscito in edizione italiana con Capovolte, su traduzione dal francese di Silvia Nugara e a cura di Rosanna Sestito. Il libro è portatore di una grande energia vitale e politica e con queste brevi note vorremmo invogliarvi alla lettura.

VIOLENZE ONCOLOGICHE – Sono violenze fisiche, psicologiche o verbali che si manifestano durante le interazioni in cui il personale medico entra occasionalmente in contatto con la paziente oncologica, ad esempio gli esami (biopsie, prelievi, ecografie). Sigonneau ne racconta una serie, nel podcast, che El Kotni trascrive e cuce insieme in un ragionamento che va oltre la scena delle malattie oncologiche per investire la medicina nel suo complesso. Come in altri ambiti, infatti, le violenze sono favorite dall’asimmetria di potere tra medico e paziente e sovente allignano nella definizione stessa dei ruoli: la sublimazione del medico, l’inopinabilità del suo sapere, l’infantilizzazione della paziente e gli stereotipi sessisti. L’unico rimedio è che entrambi i lati della relazione ne diventino consapevoli. L’indagine di Sigonneau e El Kotni contiene, però, anche descrizioni di cosa succede quando l’ascolto è reale, quando la relazione medico-paziente è di alleanza. Entrambe le parti, infatti, vivono insieme la malattia, sebbene da posizioni diverse. Perché chi cura possa veramente farlo, devono esserci non solo lo spazio e il tempo per costruire una relazione di fiducia ma anche debite condizioni di lavoro. In altre parole, l’innesco di questa dinamica virtuosa non è solo nelle coscienze individuali ma è anche l’esito di un’organizzazione del lavoro che richiede risorse e intenzionalità.

PER UN OTTOBRE CALVO – Il riferimento è all’ottobre rosa, titolo sotto il quale rientrano una gran quantità di iniziative apparentemente volte a sensibilizzare le donne sulla prevenzione del cancro al seno. Ma è davvero così? I dubbi sollevati dalle autrici sono molteplici. Sotto al cappello c ‘è di tutto, dalle campagne di screening alle maratone, alla vendita di prodotti che, agghindati di un fiocco rosa, promettono che il denaro speso per acquistarli sarà donato alla ricerca. Tra i prodotti che portano il fiocco rosa ce ne sono anche di potenzialmente cancerogeni e, come dimostrano i casi riportati nel libro, spesso non è chiaro dove vadano a finire i soldi: è pinkwashing, ovvero marketing rosa, come definito nell’inchiesta di Samantha King e dal documentario che ne è stato tratto, Pink Rinnons, Inc. (disponibile su YouTube con sottotitoli in italiano).

Sigonneau rivendica un «ottobre calvo» anche per aver sperimentato sulla propria pelle, letteralmente, la pressione del contesto a mantenersi in forma e bella durante le terapie. A chi giova questa pressione? Non a noi pazienti/impazienti, risponde, ma alla società che sembra non riuscire a sopportare la visione di un corpo in sofferenza: «quando ci si ammala si diventa allo stesso tempo una tela su cui chiunque proietta le proprie paure e qualcosa che non si ha voglia di guardare. “Ti prego, non farmi vedere quanto sei malata”, sembrano dire tutti i trucchi, le parrucche e i turbanti che ci propongono».

QUALE PREVENZIONE? – Ampio spazio è dedicato al tema della prevenzione, che nel discorso pubblico enfatizza le responsabilità individuali occultando l’importanza delle scelte politiche ed economiche. L’«industria del cancro» fa profitti da una parte con i farmaci oncologici e dall’altra con pesticidi, erbicidi e altri prodotti chimici cancerogeni e la parola prevenzione è usata solo in riferimento agli stili di vita e all’adesione ai programmi di screening per la diagnosi precoce di cancro al seno con mammografia, ma non alla prevenzione non diagnostica. Servirebbe invece un approccio sindemico, ovvero in grado di spiegare la prevalenza di certe malattie non trasmissibili in determinate popolazioni. Ma, sottolinea Mounia El Kotni, non è facile produrre queste ricerche anche per la scarsa disponibilità di dati che mostrino il nesso tra incidenza dei tumori e inquinamento ambientale.

In merito ai programmi di screening per la diagnosi precoce, le autrici delineano gli argomenti del dibattito scientifico in corso mettendo in allerta sui possibili rischi, che in sintesi riguardano la cosiddetta “sovra diagnosi” (come in Italia ha fatto Slow medicine, il movimento per una medicina sobria, rispettosa e giusta).

CANCRO E STEREOTIPI DI GENERE – Illuminanti le pagine in cui, attraverso la voce di Sigonneau, si dispiega il dispositivo di costruzione del genere, che emerge come inchiostro simpatico nel controluce della malattia. Sei uomo? Ti viene negato il casco che riduce l’effetto della chemioterapia sulla caduta dei capelli, tanto per gli uomini è normale perderli. Sei donna? Scopri che se hai la testa calva puoi andare in giro da sola la notte senza essere molestata perché con i capelli hai perduto uno dei tratti distintivi della tua sessualità e questo ti rende paradossalmente libera. E tuttavia ci si aspetta da te di non venir meno al tuo ruolo di moglie e di madre. Sotto al desiderio di mantenersi in modalità super woman, dice Sigonneau, c’è forse qualcosa che non vogliamo vedere e cioè la paura di essere abbandonate.

Questo libro si avvale dei frammenti del podcast in cui Maelle Sigonneau si è «fatta forza» della malattia per decostruirne l’esistenza sociale. Un percorso che ha visto la sua metamorfosi da paziente a im/paziente: «per Maelle questa trasformazione è stata femminista e militante. Si è presto liberata della patina che aveva addosso di “brava paziente”, docile, ubbidiente, che fa qualche domanda ma non troppe, nei momenti giusti e, soprattutto, che non rimette in discussione il sapere medico. Sapeva che liberandosi avrebbe rischiato di esporsi alle critiche, agli obbrobri e talvolta alla violenza».

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