Quando nel 2021 Josè Mourinho è arrivato a Roma – presentato giustamente come una star del cinema (in fondo lo è), tra passeggiate in Vespa alla Gregory Peck e conferenza in stile “Il Gladiatore” – prese una squadra allo sbando, che aveva chiuso il campionato al settimo posto in classifica, da rifondare. Due anni dopo, la Roma ha sì giocato due finali europee – e una l’ha pure vinta, quella meno importante –, ma è ancora una squadra da settimo posto (sul campo, sesto solo grazie alla penalizzazione della Juventus), che ha mancato ripetutamente l’obiettivo del ritorno in Champions, completamente da rifondare.
A fine campionato, dopo una qualificazione modesta in Europa League acciuffata per il rotto della cuffia e festeggiata come un successo, è il momento dei bilanci. Certo non si può dire che questi due (primi? ultimi?) anni di Mourinho in giallorosso siano stati banali. Lui lascia sempre il segno, non a caso lo chiamano lo “Special one”, lo ha fatto anche alla Roma. Bisognerebbe interrogarsi però su questo segno, se sia positivo o negativo. La città ha già scelto: “Un solo uomo al comando… Josè Mourinho per mille anni”, lo striscione esposto in tribuna all’Olimpico. L’analisi è più complessa, ma nella Capitale fanno fatica a rendersene conto, anche perché ormai vivono una narrazione piuttosto scollegata dalla realtà – a cui Mourinho ha contribuito con la sua arte oratoria – dove la Roma sola contro tutti ha perso una coppa per colpa di un arbitro e dei poteri forti del pallone. E invece ovviamente non è così.
È chiaro che con una vittoria a Budapest tutto sarebbe diverso: la Roma avrebbe conquistato il suo terzo, storico trofeo internazionale e si sarebbe qualificata per la Champions, addirittura in prima fascia. Ma il calcio è fatto di episodi e risultati, soprattutto il calcio di Mou. E allora il bilancio cambia. Oggi la Roma è semplicemente una squadra che ha fallito il suo obiettivo stagionale, perché nel calcio moderno ciò che davvero fa la differenza per una società è qualificarsi o meno nell’Europa che conta e che garantisce i milioni necessari a fare il salto di qualità. E la Roma non c’è riuscita, nonostante avesse tutti i mezzi per farcela.
I giallorossi sono arrivata sesti, per due stagioni consecutive, giocando per altro un calcio spesso inguardabile. E questo pur essendo, numeri alla mano, la terza/quarta forza economica della Serie A: nessuno ha sottoperformato più di loro. L’anno scorso hanno chiuso un mercato faraonico da 110 milioni di euro di passivo (fonte: Transfermarkt), mentre quasi tutti gli altri dopo il Covid erano costretti a tirare la cinghia. Quest’anno si sono assicurati un campione come Dybala, più altri parametri zero dall’ingaggio pesante (Wijnaldum, Matic, Belotti), tanto da avere il quarto monte stipendi del campionato, praticamente pari al Milan, superiore al Napoli campione d’Italia, per non parlare dei cugini della Lazio. Eppure il risultato non è cambiato.
Forse anche in società qualcuno comincia ad essere un po’ stanco di un allenatore così ingombrante, che si lamenta continuamente, e fa passare per straccioni una proprietà che ha investito oltre mezzo miliardo, rendendola forse il club più proiettato verso il futuro dell’intera Serie A, mentre gli ultimi sei mesi ne hanno trasmesso un’immagine all’estero quasi medievale. Per non parlare appunto della bolla a metà tra complottismo e isteria, sfociata proprio in violenza in aeroporto a Budapest, in cui sembra rimasta intrappolata la piazza.
Attenzione: Mourinho non ha truffato Roma e i Friedkin. Era stato preso per rendere di nuovo grande la squadra e in fondo l’ha fatto. Le due finali europee in due anni sono lì a testimoniarlo, non mentono, non si cancellano. Come le sensazioni forti che ha fatto vivere ai tifosi giallorossi e che restano l’essenza del calcio. Quando osannano Mou, vanno capiti. Si può dire dunque che Mou abbia fatto centro comunque. Ma lo ha fatto a suo modo. Ha dato tanto, è vero, ma ha preso quasi tutto, senza costruire nulla. Ha inseguito ad esempio l’obiettivo collettivo, ma soprattutto personale, dell’Europa League, gettando letteralmente alle ortiche la qualificazione in Champions in un anno irripetibile (con la Juve penalizzata): magari il quarto posto scaldava meno il cuore dei tifosi, ma era ciò che contava davvero per il club, e a lui è importato poco.
Non ha valorizzato la rosa: i talenti sono deprezzati, come Abraham, uno che quando è arrivato era il centravanti del futuro dell’Inghilterra da oltre 40 milioni e ora pare un brutto anatroccolo; Zaniolo è stato esiliato in Turchia, Pellegrini trasformato in un mediano, con lui rendono solo i senatori ultratrentenni, tipo Matic e Smalling. Un’identità esiste, è innegabile, ma interamente costruita sulla filosofia dell’anti-gioco, che si regge sui nervi continuamente tesi da Mou, e si sgretolerebbe un secondo dopo il suo addio. Il brand, dopo le scenate a livello nazionale e internazionale, è devastato. Tutto da ricostruire. Adesso Mourinho potrebbe rimanere, come lascia intendere, e avrebbe un altro anno per scrivere un altro capitolo di storia, comunque indimenticabile. Ma anche andarsene. Quel che è certo è che oggi o domani, presto o tardi, lascerà a Roma emozioni e macerie. Come dove ovunque lui sia passato.