Quando fu istituita cinquant’anni fa la giornata celebrativa dell’ambiente, l’ambiente era l’ambiente. Una nozione facile da capire per tutti, il luogo delle nostre gite e vacanze, il mare, la montagna. Ma la giornata nacque per cominciare a prendere atto che era necessario proteggerlo. Anche questo un concetto non difficile. Che non si dovesse inquinare, che non si dovessero tagliare gli alberi, che la plastica cominciasse ad essere un problema erano (e restano) nozioni comprensibili, su cui tutti convergono.
Ma quest’approccio semplicemente conservativo, con l’avvento dei primi dati sulle emissioni di CO2 e del tema del cambiamento climatico, ha mostrato i suoi limiti. Progressivamente, dalla nozione di ambiente si è passati – correttamente – a quella di clima e di crisi climatica. Con tutto il bagaglio semantico relativo: accordi climatici, COP, Ipcc, emissioni, aumento delle temperature, ondate di calore, desertificazione, alluvioni, fusione dei ghiacciai e così via. Ma se l’ambiente è sempre stata una nozione facile, e tutti sono felici di proteggerlo, con il clima la questione è cambiata. Il tema è aspro, estremamente tecnico, spesso poco comprensibile. Dal piacere della protezione si passa all’ansia per la devastazione e i gravissimi rischi per la nostra vita.
Non solo. La transizione energetica, altro concetto complesso (per la maggioranza delle persone, non dovrebbe esserlo per la politica) ha reso il dibattito ancora più confuso, anche perché, appunto, parte della nostra politica, lungi dall’essere compatta sul contrasto alla crisi climatica, preferisce sabotarla verbalmente e praticamente. Così, ed è facile vedere come pericolosi luoghi comuni si diffondano tra le persone, “le misure ecologiche affossano la nostra economia”, “ci rendono dipendenti dalla Cina”, e ancora “ma perché noi Europa che emettiamo poco dobbiamo fare sacrifici quando la colpa è di altri” e così via. Con il progressivo affermarsi della destra in Europa, la questione si fa ancora più confusa. E il rischio di far saltare l’indispensabile transizione è reale.
Ma cosa possiamo fare noi, che la crisi la raccontiamo? E in generale tutti coloro che hanno davvero a cuore l’ambiente, cioè la vita? Io penso che occorra cambiare narrazione. E non limitarsi al racconto dei dati climatici, delle loro conseguenze, e di tutto ciò che ormai sappiamo, purtroppo, ma passare a una riflessione sulla vera causa della devastazione ambientale e della crisi climatica. Ovvero i nostri comportamenti, ma in maniera più ampia l’etica sulla quale fondiamo le nostre scelte, la nostra visione morale e la nostra ideologia. Purtroppo, non si riesce ad uscire da un sistema che pure i movimenti ambientalisti ed ecologisti sono appena riusciti a scalfire: il paradigma capitalista e produttivista, che ha legato la nostra gratificazione al consumo, di oggetti, servizi ed esperienze ludiche. Ricchi e poveri hanno gli stessi desideri, con la differenza che i primi possono permettersi vacanze, piscine e montagna e i secondi restano con il desiderio di possedere senza possesso. Una condizione veramente miserabile.
Che fare, dunque? Credo che le strade siano due. Da un lato, serve rafforzare tutte le politiche di sostegno alla povertà, alle famiglie. Serve aumentare gli stipendi, con urgenza, serve il salario minimo, serve il reddito abolito e il welfare alle famiglie che ancora non c’è. Bisogna cioè che le persone si sentano sicure, che abbiano denaro sufficiente perché nessuno potrà capire ed accettare una transizione ecologica ed energetica se non ha i soldi per la cena o, peggio, se quella transizione ha conseguenze su di lui. Come accaduto per l’infelice scelta della ZTL verde a Roma, da una parte necessaria, dall’altra, visto che è stata fatta senza alcuna pianificazione, un boomerang sociale incredibile, che sta creando rabbia, peggio, furore, e sta allontanando le persone dal tema ecologico.
Dall’altro, bisogna cominciare semplicemente ma progressivamente a far notare che le nostre esperienze più felici non sono mai legate al consumo, ma alla condivisione, alla relazione. Se sei malato quello che ti serve non è solo la possibilità di curarti bene (fondamentale) ma anche e soprattutto persone intorno a te che non ti lascino solo. A un bambino servono vestiti e giochi, ma quello che gli fa brillare gli occhi è giocare con i compagni. Ogni esperienza di condivisione e, anche, comunitaria, religiosa o non, ci gratifica profondamente. E in fondo non parliamo sempre, dai film ai social, di amore e amicizia? Insomma, siamo in una società dei consumi dove tutti cerchiamo di consumare senza accorgerci che però quel consumo è un contorno. Che se a quel consumo sottraessimo relazioni e sentimenti ci sentiremmo disperati. E che, dunque, non è la cosa fondamentale.
Queste mi sembrano le strade da percorrere, l’una intrecciata all’altra perché, ovviamente, senza una base economica sufficiente, tutto il resto apparirà ingiunzione moralistica, anche se non lo è. Proviamo a cercare l’essenziale e a separarlo da ciò che essenziale non è. Sicuramente questo esercizio, specie se praticato collettivamente, aiuterà l’ambiente più che tanti slogan sul salvare il pianeta.