Il brutale femminicidio di Giulia Tramontano a Milano da parte del compagno e l’assassinio di Pierpaola Romano, agente di polizia, da parte di un collega alla periferia di Roma hanno fatto salire a 47 il numero delle donne uccise dall’inizio dell’anno. Di queste, 39 sono vittime di femminicidi: quasi otto al mese. Lo riportano gli ultimi dati ufficiali messi a disposizione dal Dipartimento di pubblica sicurezza sul sito del Viminale.
Alessandro Impagnatiello, il barman che ha ucciso la sua compagna Giulia Tramontano, incinta al settimo mese, ha sostenuto di “aver agito senza un reale motivo, perché “stressato dalla situazione che si era venuta a creare”. Impagnatiello, che ha accoltellato la fidanzata provando poi per due volte a bruciarne il corpo, prima di gettarlo in una intercapedine, come se si trattasse di un rifiuto, ha menzionato tra l’altro, quale “fonte di stress”, non solo la gestione delle due ragazze, in quanto oltre a Giulia aveva un’amante di 23 anni, sua collega di lavoro, ma anche il fatto che “altri ne fossero venuti a conoscenza”.
Tali affermazioni ci portano direttamente dentro ad un abisso, ad un male assorbito nella nostra coscienza e cultura. Radicato, pericoloso e latente. Impagnatiello viveva una vita libera nella menzogna, nella libertà di fare e dire tutto quello che voleva. Quando è caduta la maschera narcisista del bravo ragazzo e padre è scattata una reazione irreparabile, avendo perso il controllo, ma soprattutto “il potere” sulle “sue” donne e sulla sua “libertà”. Una libertà pretesa e difesa come un diritto intoccabile, tanto che l’ha portato, con una normalità spaventosa, a sbarazzarsi di quello che per lui era diventato un peso ingombrante nella sua vita quotidiana, la compagna Giulia, incurante del figlio “Thiago” che portava in grembo.
La madre e quasi tutta la stampa hanno definito Alessandro Impagnatiello “un mostro”. Quello che ha commesso è aberrante ma, non sono d’accordo, non è un mostro, è un uomo che ha ucciso. Dal 2000 ad oggi hanno perso la vita oltre 3000 donne per mano di uomini, non mostri mitologici, ma comuni, normali operai, impiegati, professionisti, padri di famiglia. Uomini che hanno ucciso. Uomini che hanno covato una violenza esplosiva. Uomini che considerano le donne come oggetti di loro proprietà, usa e getta, che pretendono con l’alibi dell’amore di controllarle, di disporre a piacere del loro corpo, di metterle al loro servizio in quanto maschi.
È da qui che bisogna partire, da quella pesante dote culturale che ancora oggi ci portiamo sulla coscienza e che trasuda misoginia, maschilismo, sessismo e superiorità maschile. Una cultura retrogada che non accetta che le donne siano cambiate, che si ribellino non acconsentendo più ad essere picchiate, maltrattate, abusate delegittimate in silenziosa omertà al fianco dell’uomo “pater familias” e in dedita venerazione della sola cura della casa e dei figli.
Tutti questi cambiamenti volti ad arrivare ad una reale parità di diritti tra donne e uomini sono visti come una ingiustizia, una limitazione di libertà e di potere per quegli uomini cresciuti e nutriti a pane e patriarcato. Di conseguenza “si stressano” e covano rabbia, odio, rancori che nella peggiore delle ipotesi esplodono in violenza, provocando danni irreparabili. Per questo motivo bisogna parlare e contrastare un fenomeno culturale e criminale strutturato e diffuso, quale è la violenza sulle donne, che affonda le sue radici nel patriarcato sociale, nei pregiudizi, negli stereotipi e nelle disuguaglianze di genere.
Non è roba da mostri, ma da normalissimi uomini.
Le donne italiane sono cambiate. Gli uomini no. Questo è il problema. A questo dobbiamo porre rimedio e il lavoro da fare è lungo. Le leggi ci sono, ma è sempre più chiaro che non bastano. Sono oltre quarant’anni che si scrivono provvedimenti in tema di contrasto alla violenza di genere, dalla ratifica della Convenzione di Istanbul, alla legge sul #femminicidio, fino al Codice Rosso e ai piani Nazionali Antiviolenza, tuttavia ancora oggi viene uccisa una donna ogni tre giorni. È soprattutto sul piano culturale che bisogna fare una rivoluzione, introducendo in modo sistemico l’educazione affettiva e sessuale dai primi banchi di scuola in modo da educare al rispetto di se stessi e della persona in generale e fornire un alfabeto gentile delle emozioni che aiuti i ragazzi e le ragazze a riconoscere la violenza gestendo anche i sentimenti più negativi quali la rabbia e la gelosia. Solo così sapranno contenerli da adulti.
L’Italia è uno degli ultimi Stati dell’Unione europea in cui l’educazione sessuale non è obbligatoria nelle scuole: gli altri paesi sono Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania. Quando ho depositato la mia proposta di legge per l’introduzione obbligatoria dell’educazione affettiva e sessuale in tutte le scuole di ogni ordine e grado, dal centrodestra si levarono voci che mi accusarono di voler “parlare di aborti ai bambini”. Neanche si è tentato di capire il tema della mia proposta.
Ci sono poi altre criticità che la politica deve affrontare con maggiore concretezza e subito.
Per prima cosa dobbiamo lavorare per garantire assistenza immediata e concreta alle vittime. A tal proposito, come deputata ho depositato due proposte di legge: una per estendere la durata massima del congedo per le lavoratrici vittime di violenza e una per il loro inserimento nelle categorie protette ai fini del collocamento obbligatorio al lavoro, perché la libertà passa anche dall’indipendenza economica. Poi, è necessario rafforzare gli strumenti di prevenzione e repressione previsti dal Codice Rosso, introducendo, ad esempio, un istituto che consenta il fermo di indiziato quando vi sia il pericolo di reiterazione dei reati violenti. È essenziale garantire una rete omogenea dei centri antiviolenza dando loro risorse adeguate e provvedere alla formazione continua di tutti gli operatori e operatrici che entrano in contatto con le vittime di violenza di genere.
Sono necessarie delle linee guida uniformi di valutazione del rischio e di lettura della pericolosità delle situazioni in cui si trovano le donne e i loro figli. Migliorare il funzionamento dei centri per gli uomini maltrattanti, perché la pena da sola non basta per evitare la recidiva. Oltre a tutto questo è, infine, fondamentale lavorare sulla narrazione e sul linguaggio che i media usano quando parlano della violenza sulle donne ancora pervaso di stereotipi e sessismo.
Sulla nostra televisione pubblica dovrebbero essere trasmessi con costanza messaggi di sensibilizzazione e informazioni che diano numeri utili di emergenza che facciano comprendere alle vittime che non sono sole e c’è sempre un’alternativa alla violenza così come pene certe e severe per chi la commette. Una reale parità di genere passa necessariamente da cambiamenti come questi, altrimenti il rischio è che saremo sempre una di meno.