di Susy Matrisciano* e Iunio Valerio Romano**

In Italia gli infortuni mortali sul lavoro costituiscono ancora un problema irrisolto, nonostante i periodici tentativi di miglioramento di una disciplina prevenzionistica che, almeno sulla carta, dovrebbe essere una delle più avanzate al mondo, e di rafforzamento dell’attività di controllo. Tuttavia, la cronaca e i dati statistici ci parlano di una media di 2-3 morti al giorno, se è vero che, dall’ultimo resoconto dell’Inail, le denunce di infortunio nel primo trimestre 2023 sono state 144.586 (-25,5% rispetto all’anno precedente per il minor peso dei casi di contagio da Covid-19), di cui 196 con esito mortale (+3,7% rispetto al 2022, quando in totale si sono registrati 1.090 decessi). In aumento anche le patologie di origine professionale, che sono state 18.164 (+25,1%).

Le chiamano “morti bianche”, come se non ci fosse una precisa e diretta responsabilità per un evento spesso percepito come una tragica fatalità, quando al contrario è e resta un crimine che ha ricadute importanti sul fronte etico, sociale ed economico. Basti pensare che, da uno studio commissionato nella scorsa legislatura dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia ad un pool di esperti dell’Università statale di Milano, è emerso che le morti e gli infortuni sul lavoro hanno un impatto sul Pil nazionale pari al 6%.

La verità è che le responsabilità coinvolgono molti più soggetti di quanto non si possa pensare, da chi con la propria azione o omissione ha favorito le condizioni di pericolo, a chi con indolente indifferenza e rassegnazione ha perso la forza di indignarsi autenticamente rispetto al sacrificio di una vita dinanzi alla logica del profitto, contribuendo ad uccidere due volte la vittima e a mortificarne gli affetti, da chi fa delle tutele prevenzionistiche solo un’occasione di business allo stesso legislatore, alcune volte incapace di mediare tra le esigenze della produzione e la tutela della dignità umana.

Molto spesso la parola “sicurezza” è stata usata in maniera strumentale, esclusivamente finalizzata a creare allarmismo. Noi, davanti a oltre mille lavoratori morti ogni anno nei cantieri, nei campi, in fabbrica, per le strade, abbiamo sentito il dovere di rispondere con i fatti alla richiesta di “maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro”.

Cosa si può fare, dunque, di concreto per invertire in maniera significativa il trend e rendere davvero prossimo allo zero il rischio che il lavoro, da strumento per realizzare una vita libera e dignitosa, come sancito dalla nostra Carta costituzionale, si riveli un’occasione di morte e di dolore? Attraverso un patto con imprese, lavoratori e parti sociali è indispensabile promuovere il potenziamento del personale ispettivo, la diffusione della cultura della sicurezza anche nelle scuole e l’istituzione della Procura nazionale del lavoro, che nella scorsa legislatura era in fase di realizzazione con l’iter avviato nelle Commissioni congiunte giustizia e lavoro del Senato. Infatti, non è da trascurare la valenza prevenzionistica di una giustizia equa, riparatoria e tempestiva, perché il sentimento di impunità alimenta la propensione all’illegalità e si abbatte come una condanna sulle vittime.

In questi termini, il progetto di legge avallato da più parti può rappresentare uno degli strumenti per contribuire all’obiettivo “zero morti sul lavoro”, garantendo quel coordinamento e quella uniformità di condotta che ad oggi ha limitato non di rado la risposta di una giustizia esemplare.

È inoltre opportuno fare in modo che la prevenzione non sia percepita come un costo di impresa fine a se stesso e che la formazione, l’informazione e l’addestramento siano momenti sostanziali e non solo atti formali di un percorso di presa di coscienza e di consapevolezza della realtà lavorativa e dei rischi che ne possono conseguire. L’individuazione e la valutazione del rischio devono trasformarsi in automatismi mentali e comportamentali che facciano delle regole di condotta una virtuosa consuetudine.

E’ indubbiamente necessario potenziare, sia sotto il profilo delle risorse umane che strumentali, gli organi di controllo che, con un’azione sinergica, condivisa e volta non solo a reprimere, ma anche ad educare e ad accompagnare al rispetto di adempimenti non sempre di facile lettura e applicazione, orientino soprattutto le realtà imprenditoriali meno complesse. Doveroso è, altresì, prevedere idonei istituti, come quello della sospensione dell’attività imprenditoriale, capaci di indirizzare il datore di lavoro verso un percorso di legalità, anche in ottemperanza al dettato di cui all’articolo 41 della Costituzione, in forza del quale la libera iniziativa economica non può recare danno alla salute e alla dignità umana, e ai principi di leale concorrenza.

Fondamentale in tale senso è infine l’approccio culturale, che deve instillare il sentimento di lealtà e rispetto delle regole sin dai banchi di scuola, dove si formano i lavoratori e gli imprenditori del futuro, attraverso l’approfondimento di diritti e doveri e l’acquisizione di testimonianze dirette, che possano favorire la maturazione di una coscienza piena e realmente consapevole di ciò che rappresenta la legalità in un contesto di condivisione sociale.

*Presidente Commissione lavoro pubblico e privato, previdenza sociale – XVIII legislatura – Senato. HR Manager di una multinazionale del settore metalmeccanico.
** Vicepresidente Commissione monocamerale d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati – XVIII legislatura – Senato. Avvocato, oggi addetto al Processo legale.

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