La dissolvenza in nero che chiude Olga, il film dello svizzero di Elie Grappe in sala dall’8 giugno, è uno dei più inquietanti “salti” verso l’ignoto di guerra e distruzione (il film finisce nell’estate del 2020) che il cinema potesse recentemente realizzare. Nella Kiev di fine 2013, la giovane promessa della ginnastica ucraina Olga (interpretata da Anastasia Budiashkina, ginnasta professionista anche nella realtà) si allena con successo per gli Europei e le future ambite Olimpiadi, ma le minacce di morte e le aggressioni verso sua madre, giornalista che indaga sulla corruzione dei burocrati sotto la presidenza di Yanukovich, la spingono a preservare incolumità personale e ipotetica carriera rifugiandosi in uno chalet svizzero del parentado da parte di babbo.
L’inserimento tra atlete autoctone (ce ne sono diverse anche della svizzera italiana) sarà ruvido ma costante e Olga prenderà pure la cittadinanza svizzera, ma il precipitare degli eventi in Piazza Maidan in Ucraina di novembre 2013 e delle settimane a seguire, con il grave ferimento della madre, spingeranno Olga a rivedere i piani del suo futuro di vita e di ginnasta. Olga – il film – potrebbe essere banalmente scambiato per un film di propaganda pro Ucraina in purezza, ma in realtà tende a sovrapporre e far interagire due componenti esistenziali della protagonista (talento e successo sportivo/identità nazionale per nascita e destino) rimodulandone continuamente le dosi come fossimo tra le pieghe di un thriller coming of age. Lo spirito di Olga – il film- adduce al plumbeo, con i ripetuti tentativi della ragazza di allenarsi di nascosto di notte in una palestra in penombra come fosse una clandestina fuori posto. La classica psicologia della protagonista, inoltre, tipico elemento narrativamente da drammatizzare, è lentamente scalpellato come di fronte a un torsolo di pietra grezza, che è poi gioco facile con questo viso impenetrabile dall’espressione algida e perennemente seria di Olga. E comunque Grappe ripropone una reiterazione di volteggi, parallele (soprattutto il dettaglio della presa dell’asta con le mani), travi, e corpo libero, modificando sempre angolo e distanza della macchina da presa, ed evitando una visiva e statica ripetizione, proprio per sviluppare in quella sospensione del corpo di Olga la sua impossibilità di posizionarsi salda in una nuova terra che non sia quella della sua origine.
Certo dallo smartphone di Olga le immagini delle proteste anti Yanukovich in piazza Maidan diventano immagine del film tout court in una febbrile soggettiva che si fa spesso anche incubo notturno della ragazza. Ma è proprio evitando di esplicare una complessità politica inesplicabile in così pochi istanti di cinema (Maidan e le infiltrazioni nazionaliste naziste, la crisi in Crimea del 2014 e l’impensabile conflitto russo-ucraino del 2022) che Grappe rende Olga – il film – uno scrigno di urgenza individuale e profonda, di sacrificio del sé per un noi pulito e futuro che inevitabilmente sarà, oltre ogni cannone, vittima e forzatura politica esterna.