“La politica societaria era cambiata, il focus era tutto spostato sul profitto. Per questo nel 2013, alla scadenza del mio contratto, andai da un’altra parte, anche se con un contratto meno remunerativo, ma almeno facevo le cose per bene”. Ha spiegato le sue scelte, Antonio Pedna, ex dipendente di Spea, durante il processo per il crollo del ponte Morandi. L’infrastruttura in concessione ad Autostrade crollò il 14 agosto 2018 provocando 43 morti e a Genova è in corso il dibattimento che conta 58 imputati.
Pedna si occupava di coordinamento per la sicurezza nelle fasi di progettazione degli interventi e delle modalità di installazione dei cantieri e piano di sicurezza: “Negli anni – ha spiegato – la mia attività è stata messa in discussione, compressa per motivi economici e temporali”. Il testimone si era anche occupato del progetto di retrofitting del Morandi, ovvero il rinforzo delle pile 9 e 10: “Installare il cantiere era complesso e suggerii di chiudere il viadotto al traffico”. Ma Giampaolo Nebbia, uno dei 58 imputati, ha sottolineato Pedna, “in una mail del 2011 mi rispose: ‘Il problema è molto serio. Aspi non vuole disturbi al traffico, quindi dobbiamo ragionare su soluzioni alternative'”.
Per la procura, in pratica, Spea, la controllata che si occupava di manutenzioni, era assoggettata ad Autostrade per l’Italia e faceva quello che la società disponeva. Sentito in controesame anche Giuseppe Stigliano, dipendente di Cesi, società di consulenza a cui si rivolse Autostrade: “Notammo delle anomalie tra i dati raccolti dai nostri sensori installati nelle pile 9 e 10 e il modello teorico – ha spiegato – Suggerimmo alla società di installare un sistema di monitoraggio permanente”.
Lo scorso 22 maggio in aula era stato ascoltato Gianni Mion, ex ad di Edizione, la holding della famiglia Benetton, che aveva raccontato: “Emerse che il ponte aveva un difetto originario di progettazione e che era a rischio crollo. Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza e Riccardo Mollo (ex direttore generale operazioni di Autostrade per l’Italia, ndr) mi rispose: ‘Ce la autocertifichiamo’. Non dissi nulla e mi preoccupai. Era semplice: o si chiudeva o te lo certificava un esterno. Non ho fatto nulla, ed è il mio grande rammarico”.