C’è anche un po’ di Calabria nella nuova edizione del Festival Vicenza in Lirica, il lungo percorso musicale iniziato mercoledì 7 giugno e che s’interromperà nei mesi di luglio e agosto per poi riprendere e concludersi a settembre – eccezion fatta per i pomeriggi musicali, che ogni martedì continueranno anche a ottobre. Un programma ricchissimo, che unisce messinscene e concerti a esecuzioni finali di nutrite masterclass. Così, fra i Mozart, i Puccini e i Piazzolla, si inserisce, come anticipavo, anche la presenza di Leonardo Vinci, il calabrese di Strongoli, in provincia di Crotone, che nel XVIII secolo divenne uno tra i più illustri rappresentanti della eccellentissima scuola musicale napoletana.
È dunque tra il Così fan tutte di Mozart, arie scelte di Puccini, un Tango e Le quattro stagioni di Piazzolla che Vicenza in Lirica ha in programma L’ammalato immaginario, il celebre intermezzo di Vinci già recuperato in tempi moderni dal Lirico Sperimentale di Spoleto in occasione della sua 75esima stagione musicale: un’edizione critica frutto del lavoro di Gaetano Pitarresi con la preziosa collaborazione del centro Studi Pergolesi dell’Università degli Studi di Milano, una partitura il cui titolo non deve trarre in inganno, perché nulla ha a che fare con l’omonimo malato immaginario di Molière. Quello di Vinci, in qualità di intermezzo, andava inserendosi a suo tempo tra i vari atti dell’Ernelinda, opera seria dello stesso Vinci per tre volte appunto infilzata dalle vicissitudini comiche di Erighetta e Don Chilone, espediente a cui nel Settecento si ricorreva per alleggerire le vicende spesso oltremodo tragiche del genere serio.
A fronte dunque di una progressiva riscoperta, negli ultimi anni, del repertorio di uno dei grandi protagonisti musicali del primo Settecento, Leonardo Vinci, l’altro scavo che il Festival vicentino mette in campo è quello, temporalmente meno distante, dell’Ecuba di Gian Francesco Malipiero, pagina di rara bellezza disgraziatamente penalizzata, nella sua prima storica del 1941, dal coevo contesto sociale e culturale, quello di un’Italia schiacciata da un servilismo ipocrita e uno spudorato dogmatismo estetico. Solo pochi anni prima, nel 1934, Mussolini, dopo aver assistito alla sua prima italiana, faceva cancellare le successive repliche della Favola del figlio cambiato, opera di Pirandello musicata da Malipiero, perché accusata di veicolare un messaggio sovversivo.
Un’esperienza tanto traumatica quanto, per Malipiero, feconda di utili suggerimenti: dirigersi verso soggetti a prova di bomba, tanto inattaccabili quanto storicamente collaudati. Da una parte, dunque, l’antica Roma in chiave shakespeariana delle opere Giulio Cesare (1935) e Antonio e Cleopatra (1937), dall’altra la tragica mitologia greca d’Euripide. In un’Italia dalla censura fin troppo agile, nel Paese che stilava un Manifesto dei tradizionalisti, dalle cui pagine si levavano sentenze del seguente peso, “Il nostro mondo è stato investito, si può dire, da tutte le raffiche dei più avventati concetti avveniristici (…) Qualunque tentativo di rinnovazione era accettato perché inedito, non importa se ragionevole e logico (…) Cosa ne abbiamo ricavato? Delle strombazzature atonali e pluritonali, dell’oggettivismo e dell’espressionismo che se n’è fatto, cosa è rimasto?”, nell’Italia fascistissima che il diverso avversava erano quelli dunque i testi in grado di garantire la veicolazione di musiche, quelle di Malipiero, già di loro poco inclini agli estetici cliché del più sfrenato tradizionalismo.
Ciò nondimeno, una tiepida accoglienza il pubblico di Roma riservava alla sua Ecuba, dopodiché l’oblio. Oggi, in forma di concerto, Ecuba torna a vivere all’interno del Festival Vicenza in Lirica, mentre per la messinscena moderna dovremo attendere ancora: il FUS non ha dato i fondi. Un peccato vero e un’omissione a cui porre rimedio.