L’idea che Vladimir Putin esasperato dalla controffensiva ucraina abbia deciso di dare una dimostrazione di quanto possa essere terribile la sua reazione, una volta che viene messo all’angolo, è una leggenda metropolitana circolata nelle ore successive al crollo della diga di Nova Kakhovka e alla successiva alluvione nell’oblast di Kherson sulla quale molti esperti si sono spesi. Non ha senso parlarne perché quello che abbiamo davanti agli occhi non è lo scatto di collera di un dittatore disperato e crudele, ma una situazione più simile alla catastrofe di Chernobyl, almeno analizzando le cause: si è trattato di un errore determinato da un mix di imperizia, arroganza e stupidità.

Per capire che cosa è successo dobbiamo, prima di tutto, conoscere la geografia del territorio attraversato dal fiume Dnepr posto tra il sesto e ultimo bacino idrico artificiale, costruito sul corso del gigantesco fiume delle steppe orientali, e il suo delta che sfocia nel Mar Nero a una distanza di circa 90 chilometri. Il fiume ha una golena, cioè un gap fra il corso e gli argini, di circa 12 chilometri: soprattutto sul fianco orientale, in quella parte dell’oblast di Kherson ancora occupato dai russi, il territorio è oggetto alle esondazioni del fiume e per questo scarsamente popolato. È qui che si è abbattuta la valanga d’acqua uscita dalla diga della centrale Kakhovskaya HPP ed è qui che villaggi e insediamenti agricoli sono stati sommersi da quattro o cinque metri d’acqua, fango e petrolio fuoriuscito da una raffineria travolta dall’onda.

A ben guardare la mappa, ci accorgiamo che proprio di fronte alla diga – alta 30 metri e larga quasi 3.300 – si presenta un sistema di isole fluviali molto fitto, esteso in lunghezza per 15 chilometri e che raggiunge una larghezza massima di poco meno di 3: per capirsi, è grande quanto duemila campi di calcio. Su queste isole nei giorni e nelle ore precedenti il disastro del 6 giugno era in atto un feroce combattimento tra le truppe ucraine e quelle degli occupanti russi. In mezzo alla vegetazione e tra canali facilmente attraversabili come in una Venezia antidiluviana priva di immobili e strade, si stava svolgendo un confronto, vincendo il quale gli ucraini avrebbero potuto mettere i piedi nella parte di oblast ancora controllato dalle truppe del Cremlino senza doversi esporre costruendo un ponte di barche più a sud. La stessa cosa stava succedendo nell’area del delta, 350 chilometri quadri di isolotti e acquitrini, ma lì – dalle parti di Nova Khakovka – c’era la prospettiva di liberare centri abitati di una certa importanza, non solo paludi e parchi naturali come vicino alla foce. Ed ecco che appare chiaramente che cosa è successo: nei giorni precedenti il livello dell’acqua nel bacino artificiale era stato innalzato, approfittando della tradizionale piena del mese di maggio. La tentazione di coprire quegli isolotti con alcuni metri d’acqua deve essere stata fortissima, tanto è vero che sarebbe bastato davvero poco sforzo.

Ma è a questo punto che scatta la variabile dell’errore: come a Chernobyl un test del sistema di sicurezza innescò la reazione che provocò il disastro del 1986, così a Nova Kakkovka la fuoriuscita d’acqua “controllata” (ma non troppo) da una centrale idroelettrica minata dalle truppe di occupazione è stata il trigger di una catastrofe ambientale e umanitaria di enormi proporzioni. Nessun missile avrebbe potuto abbatterla: chi ha visto i palazzi ucraini, siriani o yemeniti colpiti da missili e razzi sa che non sono collassati, ma sventrati nel punto di contatto. Per abbattere un palazzo, così come qualsiasi infrastruttura in cemento armato, bisogna minarlo: Internet è pieno di video spettacolari di demolizioni controllate effettuate “minando” le parti portanti degli edifici. Quindi, se la diga è crollata può esser stato solo per le mine, complice un’apertura sciagurata.

Ma dove si sono riversati tanti litri d’acqua? Paradossalmente, la bomba è esplosa sul lato occupato dai russi, travolgendo non solo villaggi e aziende, oltre alla stessa Nova Kakhovka, ma anche le truppe e i depositi delle forze armate russe. Alla vigilia del disastro avevano avuto la comunicazione di prepararsi a ritirarsi in ordine entro l’8-9 giugno: all’improvviso, lungo tutto il fianco orientale del Dnepr si sono sentiti dire di allontanarsi quanto prima per salvarsi. E nel farlo non si sono potuti portare dietro carri armati, veicoli corazzati e munizioni, finiti sott’acqua. Gli ucraini hanno avuto danni meno importanti, dato che il fianco occidentale del fiume ha l’argine molto più vicino al corso e i centri abitati sono costruiti in posizione più elevata.

Così, con la prospettiva di due-tre settimane per il ritiro delle acque e col Dnepr che nei prossimi mesi vedrà la portata diventare via via più piccola (la piena c’è già stata, come detto, a maggio), la controffensiva ucraina non dovrà nemmeno fare i conti con alcuni chilometri di strade invase dal fango, dato che il sole estivo dovrebbe seccarlo.

Insomma, abbiamo assistito a un nuovo disastro ecologico e umanitario prodotto dall’uomo, proprio come a Chernobyl, ma come diretta conseguenza di errori, arroganza e mancanza di criterio: non come gesto deliberato per fermare una controffensiva né ancora meno come prova di forza rivolta verso l’occidente. Vero è anche che gli ucraini avevano già aperto in modo controllato dei bacini per fermare offensive russe a Kiev e in Donbass abbastanza a lungo da permettere di riorganizzare le difese, non certo per interrompere del tutto le aggressioni. Adesso, a quanto pare, i russi lungi dal riorganizzare le difese dovranno cercare tra il Dnepr e la Crimea posizioni più difendibili e trovare munizioni e mezzi in sostituzione di quelli perduti.

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