Vincenzo Italiano se ne sta fermo immobile sul prato verde dell’Eden Arena. La testa alta, lo sguardo fisso davanti a sé, le mani piantate nelle tasche. Resta così per qualche secondo, come se fosse lontano, quasi sospeso in una bolla di sapone. Almeno fino a quando una voce non lo chiama e lui inizia ad avanzare lungo uno stretto corridoio di maglie bianche. Qualche avversario lo saluta, altri gli allungano una pacca sulle spalle. La maggioranza, semplicemente, lo ignora. Il tecnico sta andando a farsi infilare intorno al collo la medaglia d’argento della Conference Europa League. E niente potrebbe generargli più rabbia. Perché c’è solo una cosa peggiore di perdere due finali in quattordici giorni. Ed è perdere due finali in quattordici giorni applicando alla perfezione la propria Idea.
La notte di Praga è stata crudele, quasi sadica nel suo epilogo. Ma è stata anche il compendio del calcio di Italiano. La Fiorentina ha dominato la partita, ha costruito gioco, ha tenuto palla, ha avuto l’occasione per passare in vantaggio dopo aver ripreso la gara. In poche parole ha costretto il West Ham a giocare all’italiana, a fare catenaccio, a ripartire, a sperare in un colpo del destino. Solo che alla fine la Viola si è sgonfiata come un palloncino punto da uno spillo, con un’imbucata di Paquetá al novantesimo che ha lanciato Bowen attraverso una difesa troppo alta e troppo morbida. Il sogno della Viola si è sgretolato lì, fra Igor e Biraghi. Fino a tramutarsi in tetro incubo. Fino a imprigionare Italiano nel ruolo di Willy il Coyote, un personaggio costretto a inseguire il suo primo trofeo come se fosse un Beep Beep destinato a sfuggirgli per sempre.
Dopo la delusione, dopo le lacrime, dopo il dolore, ora inizia la parte più difficile. Quella della razionalizzazione della sconfitta. Perché la stagione della Fiorentina e di Italiano non può certo essere racchiusa nelle notti di Roma e di Praga. Per convincersene basta citare un dato. La Viola che nell’ultima stagione ha speso poco più di trenta milioni sul mercato ha dominato il West Ham che ne ha investiti addirittura 194 (e che ha una rosa che vale esattamente il doppio di quella allestita da Commisso). Un prodigio. O forse no. Perché a volte le idee possono arrivare proprio lì dove non arrivano i quattrini. Ed è proprio questo che suggerisce la storia di Italiano, uno che ha portato la sua squadra a un passo dalla gloria nonostante una rosa con taglia XS, un tecnico divisivo come solo chi ha una chiara visione in testa può essere. O santo o eretico. Senza mezze misure, spesso in base a giudizi inzuppati nel preconcetto.
La sua storia alla Fiorentina è nata per caso, dopo che il regno di Gattuso si era dissolto in appena una ventina di giorni. Daniele Pradé lo ha suggerito a Commisso e a Joe Barone. Anche se uno che veniva dallo Spezia non aveva certo lo stesso appeal di uno che era stato campione del mondo. Ma da quel momento non c’è più stato niente di casuale. Italiano è riuscito ad affermare il valore delle sue idee. Che poi si basano tutte sul concetto di gioco. Anzi, sul suo concetto di gioco. Chi osserva le sue squadre ci vede dentro principi appartenuti ad altri allenatori. Zeman, Guardiola, Sacchi, Prandelli. Ma senza fare minestroni, sempre cercando un filo logico per tenere insieme elementi diversi. Quando allenava l’Arzignano, in Serie D, veniva descritto come un tecnico così preciso da diventare maniacale. Si dice addirittura che imponesse allo staff e ai dirigenti di vedere le partite del Manchester City. E che poi li interrogasse. La sua mentalità non è impiegatizia. Il calcio è una fissazione che divora ogni secondo del suo tempo. “Non stacchi mai la spina, pensi alla tua squadra 24 ore su 24 – dirà tempo dopo – Credevo che fare il capitano bastasse per diventare allenatore. Non è così”.
È un concetto che a Firenze viene elevato a sistema. I suoi principi chiave sono organizzazione, identità e coraggio, una parola che ha ripetuto spesso nelle ultime settimane. Il resto è un gioco che assomiglia a una scarica elettrica, fatto di costruzione dal basso, centrocampisti che si buttano dentro, ali che tagliano. Perché come dice Italiano: “Passare il pallone indietro non è un’onta, è un modo per far ripartire il gioco con razionalità e con un’idea”, E poi difesa alta, pressing forsennato, capacità di prendersi rischi calcolati. “Se vedo un centrocampista schiacciarsi sui difensori lo volo tra i giornalisti”, ha detto una volta in ritiro. Un principio che ha trovato la sua estremizzazione nel concetto di “tutti devono essere registi“.
Sulla panchina di Spezia prima e Fiorentina poi, Italiano è diventato uno dei tecnici più interessanti della Penisola. E lo ha fatto attraversando momenti complicati, come all’inizio di questa stagione, quando la sua squadra ha centrato appena una vittoria nelle prime sei di campionato o come nel segmento di Serie A a cavallo fra gennaio e febbraio, con sei partite senza successi. Italiano ha fatto qualche cambiamento. Ma alla fine l’idea è rimasta la stessa. E ha funzionato. La Fiorentina si è vista scivolare via dalle mani due coppe, è vero. Ma le ha perse contro le due squadre più forti incontrate nelle competizioni. “Abbiamo perso due finali giocate veramente bene ed è un peccato – ha detto Italiano a fine partita – perché quella di stasera sinceramente non pensavo potesse finire così. Abbiamo giocato come andava giocata una finale: pochi rischi“. E ancora: “È una situazione bruttissima che non avrei mai voluto vivere”.
È una frase che racconta piuttosto bene il rapporto di Italiano con la sconfitta. In un’intervista di qualche tempo fa al Corriere, l’allenatore ha raccontato: “Giocavo nei campettini di cemento e avevo 9-10 anni. Quando arrivavano i più grandi dicevano ‘chi perde, esce’. Il rischio di abbandonare il gioco mi stimolava un odio verso la sconfitta così forte che me lo porto dentro ancora adesso. Per un professionista questo può fare la differenza“. Sembra di leggere quella massima di Eric Cantona: “Io non gioco mai contro un avversario. Io gioco contro l’idea di perdere“. Italiano ha perso la finale di Conference League per seguire le sue idee. Eppure la sconfitta non sembra aver intaccato la loro bontà.