di Stefano Briganti
Il 3 giugno si è tenuta a Singapore la sessione annuale dello Shangri-La Dialogue alla quale hanno partecipato 41 Paesi, inclusa l’Ucraina. Naturalmente il tema conduttore ha riguardato la guerra russo-ucraina e la sua risoluzione. Durante la conferenza si sono confermate le posizioni degli Stati partecipanti circa le azioni da intraprendere per addivenire ad una “pace”. Uso il virgolettato perché, come ho già avuto modo di scrivere, ritengo che il massimo che si potrà raggiungere sarà una tregua più o meno fragile e lunga.
Ricorrendo alle semplificazioni binarie oggi tanto in voga, possiamo dire che a Singapore sono state confermate le posizioni di due blocchi di Paesi: quello che ritiene che la fine della guerra si raggiunga sul campo di battaglia, che potrebbe durare anni, con una vittoria ucraina; e quello che invece ritiene che si debba giungere alla fine del conflitto attraverso una negoziazione diplomatica. Del primo blocco fanno parte i cosiddetti “paesi occidentali” (Usa, Ue, Uk, Giappone, Canada, Australia) e al secondo Brasile, India, Cina, l’Asean (i paesi del sud est asiatico) e il Sudafrica che guida una coalizione di Stati africani. Il primo blocco rappresenta il 12% della popolazione mondiale e il secondo il 45%.
Ciò che ritengo molto interessante è stata la proposta dell’Indonesia. Si basa su due punti chiave: 1) la costituzione di una zona smilitarizzata lungo le linee di conflitto, sotto il controllo delle Nazioni Unite che garantirebbero la cessazione delle ostilità durante la quale si svolgerebbero i negoziati; 2) un referendum nel Donbass sotto l’egida dell’Onu per chiedere agli abitanti quale status dovrebbe avere la loro regione: se autonoma da Kiev e riconosciuta dalla comunità internazionale oppure se appartenere allo Stato ucraino.
La proposta è stata, come prevedibile, rigettata dal blocco occidentale senza troppe spiegazioni. Si può comunque pensare che il rischio molto concreto, che sia Kiev che Ue-Usa-Nato non vogliono correre, è che il risultato di un tale referendum possa rendere il Donbass autonomo da Kiev con uno status riconosciuto. Questo gli permetterebbe, tra l’altro, di scegliersi gli alleati in politica estera.
In effetti i due punti della proposta indonesiana si ritrovano nel trattato Minsk II firmato nel 2015 da Russia e Ucraina sotto l’egida di Francia e Germania.
Non trattiamo ora le ragioni del fallimento dell’accordo che sono molte e controverse. Sappiamo però due cose certe rilasciate alla stampa: Zelensky a Der Spiegel, febbraio 2023: “nel 2019 dissi prima a Macron-Merkel, poi a Putin, che per me Minsk II era impossibile da attuare”. Merkel al Die Zeit, dicembre 2022: “l’accordo di Minsk era un tentativo per dare tempo all’Ucraina di armarsi. Ha anche utiliizzato quel tempo per diventare più forte come potete vedere oggi”. Per motivi geopolitici il diritto all’autodeterminazione nel Donbass venne ignorato.
Quando, in un modo o nell’altro, le armi taceranno, le istanze separatiste del Donbass, se non saranno risolte, non si spegneranno. Se il Donbass non avrà un qualche “scudo protettivo” – attraverso una forma di autonomia o con la presenza a lungo termine di un contingente di caschi blu – i sei milioni di abitanti delle tre regioni russofone saranno oggetto di una feroce rappresaglia e “rieducazione” da parte dell’Ucraina, giustificata dal collaborazionismo con i russi. Saigon e Kabul fanno storia su questo. Di garanzie di sicurezza per il Donbass contro possibili “interventi” di Kiev post conflitto nessuno parla. Le uniche garanzie di sicurezza che vuole Zelensky sono per l’Ucraina contro futuri possibili attacchi russi.
L’occidente si disinteresserà del destino del Donbass derubricandolo a “fatto interno di competenza dello stato sovrano ucraino” come ha fatto sin dal 2014? Lo stesso disinteresse delle istanze separatiste dei curdi, degli armeni, del Sahara occidentale marocchino, tutte etichettate come terroriste e perciò da condannare.