Dignità violata, condizioni inumane, inadeguatezza dei servizi di assistenza sanitaria, tra psicofarmaci somministrati senza prescrizione medica, alimenti scaduti e scarsa igiene. Tutto nell’assenza o quasi di controlli sugli enti gestori da parte del pubblico. Questo è lo stato nel quale sono costretti a vivere coloro che sono reclusi all’interno dei Centri di permanenza per i rimpatri, i Cpr da anni sotto accusa da parte della società civile, nel silenzio complice o quasi della politica. A denunciarlo alla Camera dei deputati la Coalizione italiana libertà e diritti civili (CILD), presentando il rapporto “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”. Un modello che, al di là dei fallimenti certificati negli anni anche dai numeri sui rimpatri, ora invece viene rilanciato dal governo Meloni con un incremento di fondi di oltre 5,39 milioni per il 2023 per l’ampliamento della rete dei CPR. E l’introduzione, dopo la strage di Cutro, di nuove forme di detenzione amministrativa per i richiedenti asilo. Compresa inoltre “la possibilità di commissariare la gestione di questi Centri e di operare in deroga al codice degli appalti, fino al 2035, per velocizzare la realizzazione di nuove strutture”, si denuncia.
Sono luoghi di detenzione amministrativa, i Cpr, dove si è trattenuti senza aver commesso alcun reato, ma con l’unica ‘macchia’ di violare una norma amministrativa che riguarda l’ingresso e il soggiorno nel territorio italiano. Una ‘detenzione senza reato’ ai danni di cittadini stranieri, consumata quasi nell’ombra, data la scarsa trasparenza e la difficoltà di accesso all’interno di queste strutture, anche per la società civile e la stampa. Così spesso la vigilanza è stata permessa grazie ai ricorsi vinti dalle associazioni o alle ispezioni di pochi singoli parlamentari. Un quadro peggiorato negli anni, con la progressiva privatizzazione del sistema della detenzione amministrativa. Ma che, anche quando a gestire i centri era l’ente pubblico Croce rossa italiana, era già “incompatibile con il rispetto della dignità umana”, denuncia CILD nel suo rapporto. Negli anni, si spiega, la tendenza dello Stato è stata quella di voler minimizzare i costidi gestione di tali centri. Così nei bandi di gara prima cominciano a partecipare le Cooperative, presentando offerte economicamente più vantaggiose per aggiudicarsi gli appalti di gestione dei (vecchi) C.I.E., estromettendo via via la CRI. Poi, è la volta delle multinazionali, “come la Gepsa che nel biennio 2014-15 ottiene quasi il monopolio dei Cie allora esistenti”, si ricorda nel rapporto.
Oggi, dieci anni dopo, è invece “la multinazionale elvetica Ors a riuscire ad imporsi, ottenendo la gestione del Cpr di Macomer quando era ancora una società inattiva (dicembre 2019) e recentemente anche i Centri di Roma (Ponte Galeria, nel dicembre 2021) e Torino (febbraio 2022, poi chiuso)”, viene spiegato nel corso di una conferenza stampa alla Camera. Le modalità usate per aggiudicarsi le gare da parte delle multinazionali? Ribassi sui prezzi a base delle aste, che si traducono in “gravi violazioni dei diritti umani”, oltre che degli stessi contratti d’appalto. “Quello che vediamo nei Cpr è un’extraterritorialità giuridica, perché i detenuti non vedono applicarsi né le leggi dello Stato, né i principi costituzionali”, denuncia una delle curatrici del rapporto, Federica Borlizzi. La stessa assistenza sanitaria non viene affidata al SSN, si precisa, come invece avviene con gli istituti penitenziari, ma all’ente gestore. Ma non solo. Perché anche quanto previsto dalle disposizioni dei regolamenti ministeriali “non viene rispettato né dagli stessi gestori che dalle prefetture”.
Eppure, “sono pochi i compiti di vigilanza affidati all’autorità pubblica, alle Asl, alle stesse prefetture, ma nella gran parte non vengono effettuati, così il privato è libero di speculare sulla pelle dei migranti reclusi“. Anche perché “l’ente gestore dei CPR è retribuito in base non alla capienza teorica, ma a quella effettiva: ciò significa che il guadagno è direttamente proporzionato al numero di persone detenute”, è la denuncia.
Basta leggere i numeri. Nei dieci centri attivi a febbraio 2023 (Milano, Gradisca d’Isonzo, Roma, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo, Caltanissetta-Pian del Lago, Torino, quest’ultimo poi chiuso tra le proteste dei detenuti contro il degrado della struttura, poi resa inagibile), con una capienza teorica di circa 1.105 posti, Cild evidenza nel periodo 2021-2023 come le Prefetture competenti abbiano bandito gare d’appalto per un costo complessivo di circa 56 milioni di euro. Numeri ai quali vanno poi sommati i costi relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. Sconosciuti nel rapporto, a causa della bocciatura delle richieste di accesso civico presentate da CILD, per presunti “motivi di sicurezza”.
“Oggi il rischio è anche quello che si vede in alcune dichiarazioni di sindaci, anche di centrosinistra, come Dario Nardella (da sempre a favore della costruzione di un Cpr nel territorio metropolitano fiorentino, poi aperto a ‘trovare soluzioni alternative’, ma dopo aver evocato parole come ‘criminali, persone che delinquono abitualmente”, ndr) che categorizzano queste persone perché sono sotto il cappello della detenzione amministrativa”, spiega Marika Ikonomu, giornalista free lance e coautrice del rapporto Cild. E ancora: “Spero che il centrosinistra in un’epoca di rafforzamento di questo modello da parte del governo, costruisca invece un’alternativa e non segua la destra rincorrendo le sue posizioni sull’immigrazione”. Perché l’obiettivo, è l’appello di Cild, resta quello di combattere la disinformazione sui CPR e la retorica della criminalizzazione : “Un eventuale passaggio da una gestione privata dei CPR a una gestione totalmente pubblica non cambierebbe lo stato delle cose, ci riporterebbe nel punto da dove siamo partiti: in un buco nero. I Cpr non sono riformabili, vanno chiusi“.