Uno dei principali obiettivi della Uefa è, o quanto meno dovrebbe essere, l’essere in grado di offrire competizioni sane ed equilibrate sotto il profilo finanziario. L’attuale finale di Champions League è quanto di più lontano ci possa essere da questo concetto. Per ragioni diverse, Manchester City e Inter sono due pietre tombali dell’attuale Financial Fair Play, i cui criteri infatti verranno rivisti a partire dal 2025. I trofei vinti nel frattempo rimarranno a fare bella mostra di sé nelle bacheche delle società più scaltre, con buona pace di chi le regole – per necessità o per virtù – le ha sempre rispettate.
Prima del tentato golpe della Superlega, il club principale nel mirino della Uefa era il Manchester City, sospettato di mascherare finanziamenti azionari da parte dell’Emirato di Abu Dhabi come contributi di sponsorizzazione. La forte impennata dei ricavi del City aveva consentito alla società di aumentare gli stipendi e intervenire pesantemente sul mercato senza generare perdite particolarmente cospicue. In poche parole, secondo la Uefa il Manchester City barava per aggirare il FFP e pertanto andava escluso dalle competizioni internazionali. Non è andata così, perchè il CAS, la Corte di Arbitrato dello Sport, ha premiato il ricorso del City stabilendo, nel 2020, che non esistevano prove sufficienti per sostenere la tesi della Uefa. I dubbi però sono rimasti, rinforzati lo scorso febbraio dall’apertura di un’indagine della Premier League su oltre cento presunte violazioni finanziarie commesse dal City tra il 2009 e il 2018. Gli esiti di questa nuova procedura non sono ancora noti.
Sotto il profilo della situazione debitoria, il Manchester City è in regola con le direttive Uefa presenti e future, visto che i dati di bilancio 2021-22 parlano di un costo del personale pari al 66% dei ricavi complessivi, quindi al di sotto della soglia del 70% prevista dalla Uefa. Pur un con un payroll (costo dei cartellini + ammortamento) doppio rispetto a quello dell’Inter (424 milioni contro 248) gli inglesi possono contare su entrate pari a 731 milioni, di cui 373 provenienti dall’area commerciale. Il nodo è proprio questo: quanto sono reali questi proventi da sponsorizzazioni che permettono al City di presentare conti più che discreti?
Le entrate commerciali rappresentano il caso più spinoso anche per l‘Inter, il cui debito enorme, ammontante a quasi 500 milioni di euro, deriva in larga parte dal crollo di queste ultime. A livello di introiti da stadio e diritti tv l’Inter è tra le migliori in Italia, e a questo aggiunge anche una partecipazione alla Champions in modo continuativo, che garantisce una certa stabilità delle entrate. Tra il 2016 e il 2019 i nerazzurri hanno aumentato in maniera decisa i ricavi da sponsorizzazione grazie all’arrivo delle aziende cinesi, superando anche la società leader in Italia in questo tipo di entrate, ovvero la Juventus. Ma il progressivo disimpegno degli investitori cinesi nel calcio europeo hanno portato a una decisa contrazione di tali ricavi, alla quale l’Inter ha reagito incrementando ulteriormente il monte stipendi (negli ultimi sei anni i costi salariali sono raddoppiati) e finanziando le perdite con mutui e prestiti.
La situazione è peggiorata nella stagione in corso a causa dei problemi con il main sponsor, la società di criptovalute DigitalBits, che non ha rispettato i propri obblighi di pagamento, tanto che l’Inter ha giocato alcune partite senza sponsor sulla maglia. La partnership quadriennale prevede un introito di 85 milioni di euro e gli effetti di questa problematica si faranno sentire sul prossimo bilancio. Nel 2021 l’Inter ha sottoscritto un prestito con l’americana Oaktree Capital di 275 milioni di euro. Soldi utili per superare il periodo della pandemia ma anche per permettere all’Inter di pagare stipendi così alti, rispetto alle entrate, ai propri giocatori.
Perché l’Inter non è una squadra a costo zero, come si legge altrove. Un parametro zero con uno stipendio di 10 milioni annui pesa a bilancio più di un giocatore pagato 20 con un quadriennale da 2 milioni (7 all’incirca il suo costo annuo, prodotto dalla somma tra i 2 milioni di stipendio e i 5 di ammortamento del cartellino spalmato su quattro anni). L’Inter paga 9.25 milioni i free agents Calhanoglu e Dzeko, e ne sborsa 19.1 (11.1 di stipendio più 8 quale quota prestito al Chelsea) per il solo Lukaku. La società nerazzurra ha compiuto un percorso inverso rispetto a quello fatto da un’altra società che in tempi recenti ha trascorso vicissitudini simili, ovvero il Milan, in difficoltà con una proprietà cinese che non riusciva a pagare i propri debiti. Il passaggio a una holding americana ha portato una netta revisione delle proprie politiche economiche, con l’introduzione in primis di un tetto agli stipendi. Quelli dell’Inter sono passati da 156 milioni del 2017/18 a 198 del 19/20 a 248 milioni nel 21/22.
Lo scorso anno l’Inter ha pagato 48 milioni solo di interessi. Con un costo del personale, come abbiamo visto, vicino ai 250 milioni di euro, ai quali vanno aggiunte altre spese ordinarie quali l’organizzazione delle partite, lo stadio, il complesso di allenamento, è facile comprendere i motivi della continua chiusura di bilanci in perdita, visti i ricavi più da Borussia Dortmund che da Bayern Monaco. Con un passivo che potrebbe essere ancora più pesante a luglio, nonostante la possibile vittoria della Champions League, che non riuscirebbe a evitare ai nerazzurri cessioni per fare cassa. Si è trattata di una strategia di brevissimo respiro che però, finora, ha pagato. In finale di Champions ci saranno quindi da un lato una società ipotecata, dall’altro una tutto fuorché trasparente. La sconfitta di qualsiasi concetto di fair play.