Dopo l’accordo in extremis raggiunto ieri a Lussemburgo dove si sono riuniti i ministri degli Interni dei 27, il Consiglio europeo ha pubblicato una nota che riassume per punti i contenuti dell’intesa, che diventa ora la base per il negoziato col Parlamento Ue che dovrà approvare il Patto su immigrazione e asilo, da anni incagliato tra le posizioni del Nord Europa, quelle dei Paesi di primo approdo come l’Italia e i veti di Ungheria e Polonia, unici ad essere rimasti contrari all’accordo raggiunto a tarda sera dopo l’incontro ristretto tra Commissione, Germania, Francia, Italia, Spagna e Olanda voluto dalla presidenza di turno svedese per scongiurare il fallimento del negoziato che quasi sicuramente avrebbe impedito al Patto Ue di essere approvato entro la scadenza della legislatura a primavera 2024. Non ultimo, si tratta di un accordo a maggioranza, che oltre al voto contrario di ungheresi e polacchi registra anche l’astensione di Slovacchia, Lituania, Malta e Bulgaria. E se Polonia e Ungheria contestano la procedura adottata e promettono di mettere in discussione l’approvazione a maggioranza difronte al Consiglio, c’è chi si sfila nel merito delle soluzioni adottate, come la Repubblica Ceca alle prese coi profughi ucraini o i Paesi Bassi, che contestano la riduzione dei termini temporali sulla responsabilità dei Paesi di primo ingresso per i migranti entrati in seguito a un’operazione di salvataggio in mare.
Ma partiamo dall’unico testo prodotto dopo l’accordo, la nota del Consiglio tradotta e pubblicata nottetempo anche sul sito del governo italiano. Come previsto, non c’è alcun passo avanti rispetto alla “solidarietà” tra Paesi Ue, che restano liberi di rifiutare il ricollocamento dei migranti dai Paesi di primo ingresso: basta pagare. Né si trova traccia dei traguardi rivendicati in serata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, a partire da una trionfale dichiarazione: “Non saremo il centro di raccolta migranti dell’Unione europea”. Dopo essersi opposta all’approvazione della proposta della presidenza svedese, l’Italia ha deciso di votare a favore. A convincere Piantedosi sarebbe stata l’apertura alla richiesta italiana di stringere e implementare accordi con Paesi terzi, a partire da quelli di transito, dove espellere gli irregolari che non riusciamo a rimpatriare nei Paesi d’origine. Una soluzione che ammorbidisce, almeno a parole, le resistenze della Germania che pretende si tratti di Paesi terzi sicuri, dove il migrante abbia maturato una connessione effettiva se non addirittura familiare. Ma a fronte delle nuove procedure di frontiera che continuano a gravare sui Paesi di primo ingresso come il nostro, e di una solidarietà unicamente su base volontaria, l’Italia rientra dal vertice con la sola disponibilità dei partner europei a lasciarci avviare collaborazioni con Paesi extra Ue dove rimandare i migranti.
Una procedura complessa, senza contare i costi dei trasporti, i tempi tecnici e le difficoltà nelle procedure di identificazione dei migranti che il nostro Paese conosce fin troppo bene, tanto che mediamente non abbiamo mai rimpatriato più di 3-4 mila persone l’anno. L’intuizione, tutta da dimostrare, è trasferire la responsabilità a Paesi extraeuropei, in particolare quelli dei Balcani occidentali e del Nord Africa, con l’uso di strumenti giuridici come il concetto di “Paese terzo sicuro”, che già nella proposta del Consiglio viene fortemente incoraggiato come base per evitare di concedere alle persone l’accesso a una procedura d’asilo conforme o più in generale alla protezione nell’Unione europea. Ancor prima di ragionare di “irregolari”, cioè di persone che hanno visto esaminata e respinta la domanda d’asilo, il Consiglio ha infatti proposto che, “in base alla legislazione nazionale”, “una domanda è inammissibile” se il richiedente ha una “connessione” con uno Stato non membro che può dirsi “primo Paese d’asilo” o “Paese terzo sicuro”. Una riforma che apre a rischi di arbitrarietà e che tuttavia, evidenzia il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli (Ecre), “non aumenta la probabilità che questi Paesi accettino di ospitare persone rimpatriate dall’Ue”.
Nel dettaglio, la nota del Consiglio riporta “le misure principali sintetizzate”. Il nuovo regolamento sulla procedura d’asilo (APR) introduce “procedure di frontiera obbligatorie, con lo scopo di valutare rapidamente alle frontiere esterne dell’UE se le domande sono infondate o inammissibili”, è scritto nella nota, che precisa come “le persone soggette alla procedura di frontiera non sono autorizzate a entrare nel territorio dello Stato membro”. Quando si applicano le procedure di frontiera? Alle domande presentate a un valico di frontiera esterna da chi è stato fermato “in relazione a un attraversamento illegale” e “dopo essere sbarcato in seguito a un’operazione di ricerca e salvataggio (SAR)”. Inoltre, scrive il Consiglio, “la procedura è obbligatoria per gli Stati membri se il richiedente è un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, se ha ingannato le autorità con informazioni false o omettendo informazioni e se il richiedente ha una nazionalità con un tasso di riconoscimento inferiore al 20%”. Visti anche soltanto i numeri degli sbarchi sulle coste italiane dall’inizio dell’anno che ormai ammontano a 53mila, sul fronte operativo la questione è a dir poco gravosa, anche perché il nuovo regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione, quello che il Consiglio considera un “superamento” del regolamento di Dublino, continuano ad affidare la competenza sull’esame delle domande d’asilo ai Paesi di approdo come il nostro. A questa responsabilità viene posto un limite temporale, ma non è certo un vantaggio per l’Italia, più volte accusata dai partner europei di lasciare che i migranti procedano verso altri Stati membri, senza registrarli e voltandosi dall’altra parte, come del resto dimostrano i numeri di regolari e irregolari presenti nel nostro Paese, ormai stabili nonostante gli ingressi. Per rimandarci i migranti entrati in Europa attraverso i nostri confini, gli Stati membri avranno fino a due anni. E ancora, “se uno Stato membro respinge un richiedente con la procedura di frontiera”, la sua responsabilità non termina con l’espulsione, ma “terminerà dopo 15 mesi (in caso di rinnovo della domanda)”.
“La durata complessiva della procedura di asilo e di rimpatrio alla frontiera non dovrebbe superare i 6 mesi“, si legge. Per svolgere la procedure di frontiera gli Stati devono stabilire una “capacità adeguata” in termini di accoglienza e risorse, “necessaria per esaminare in qualsiasi momento un numero identificato di domande e per eseguire le decisioni di rimpatrio”. La nota precisa che “a livello Ue questa capacità è di 30 mila persone“, allargabile fino a 120 mila persone l’anno ma non simultanee. Infine, “la capacità adeguata di ciascuno Stato membro sarà stabilita sulla base di una formula che tiene conto del numero di attraversamenti irregolari delle frontiere e di respingimenti in un periodo di tre anni”. In un Paese come il nostro, dove l’esame delle domande d’asilo può durare anni, i tempi imposti dalle nuove procedure richiedono un’organizzazione che va ancora costruita, comprese le aree di trattenimento dove detenere i richiedenti ai quali si applica la procedura di frontiera, che il governo conta poi di poter rimpatriare o espellere senza farli passare dal sistema di accoglienza e chissà, nemmeno dai centri per il rimpatrio (Cpr) che l’esecutivo vorrebbe adesso in ogni regione.
Ma lo scoglio degli accordi coi paesi terzi o di transito rimane. Quelli davvero attivi con Paesi terzi considerati sicuri si contano sulle dita di una mano e riguardano il rimpatrio dei connazionali, non l’espulsione di cittadini di altra nazionalità. Un traguardo che l’Italia proverà a tagliare con la Tunisia, dove il premier Meloni è stata nei giorni scorsi e dove tornerà domenica 11 giugno in compagnia della presidente della Commissione Ue Ursula Von del Leyen e del premier Olandese Mark Rutte che già si è detto fiducioso per un accordo sui migranti. L’Italia in particolare ha interesse nel farsi garante di fronte al Fondo monetario internazionale che a febbraio ha sospeso il salvataggio da 1,9 miliardi di dollari perché la Tunisia si rifiuta di operare le riforme richieste. Anzi, il presidente della Repubblica Kais Saied le ha definite “diktat inaccettabili”. La Tunisia è il Paese dal quale sono arrivate la maggior parte delle persone sbarcate quest’anno, ormai 27.000. E se fino all’autunno scorso si trattava per lo più di cittadini tunisini, ora le principali nazionalità sono Costa d’Avorio e Guinea e questo perché nel Paese l’atteggiamento nei confronti degli africani subsahariani è mutato radicalmente, con lo stesso presidente Saied che ha attaccato le “orde illegali di migranti dall’Africa subsahariana”, che a suo dire sono parte di un disegno per “cambiare la composizione demografica del Paese” e trasformarlo in “un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”. Un discorso pronunciato a febbraio che ha alimentato l’impunità nella quale, denuncia anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), sono aumentate rapine e aggressioni in un “clima da caccia al nero”.
L’Italia che si dice soddisfatta dell’accordo concluso a Lussemburgo è dunque un Paese che punta sulla riuscita di accordi tutti da costruire, probabilmente a caro prezzo e sempre che siano praticabili. E che dall’Unione riceve poco o nulla di sostanziale. Nella nota del Consiglio, infatti, il punto più controverso resta quello sulla solidarietà tra Stati membri, mercificata fino a stabilire un prezzo da pagare per ogni migrante che il singolo Paese Ue decide di non accogliere lasciandolo nelle mani del Paese di primo ingresso. “Le nuove regole combinano la solidarietà obbligatoria con la flessibilità degli Stati membri per quanto riguarda la scelta dei singoli contributi. Tali contributi comprendono la ricollocazione, i contributi finanziari o misure di solidarietà alternative, come l’invio di personale o misure incentrate sul rafforzamento delle capacità. Gli Stati membri hanno piena discrezione sul tipo di solidarietà che contribuiscono”, spiega la nota. In sostanza, sta al singolo Stato scegliere se e come contribuire. E infatti: “Nessuno Stato membro sarà mai obbligato a effettuare ricollocazioni”. La nota precisa che “ci sarà un numero minimo annuale di 30 mila ricollocazioni” dagli Stati membri di primo ingresso verso altri Stati membri meno esposti agli tali arrivi. “Mentre il numero minimo annuale di contributi finanziari sarà fissato a 20.000 euro per ricollocazione“. In altre parole, se non vuoi i migranti che l’Ue prevede di ricollocare, paghi 20mila euro e chi s’è visto, s’è visto.
Piantedosi avrebbe ottenuto di poter indirizzare i contributi finanziari a un “Fondo” col quale finanziare anche quella che chiama “dimensione esterna“, ovvero i Paesi coi quali conta, insieme all’Ue, di attuare le procedure di rimpatrio ed espulsione, possibilmente accelerandole grazie alla prevista procedura di frontiera. Ancora una volta, è davvero presto per cantare vittoria. Da ultimo, aggiunge la nota, “per compensare un numero eventualmente insufficiente di ricollocazioni promesse, saranno disponibili compensazioni di responsabilità come misura di solidarietà di secondo livello, a favore degli Stati membri che beneficiano della solidarietà”. Significa che “lo Stato membro contribuente si assumerà la responsabilità dell’esame di una domanda di asilo da parte di persone che, in circostanze normali, sarebbero soggette a un trasferimento verso lo Stato membro competente (Stato membro beneficiario). Questo schema diventerà obbligatorio se gli impegni di ricollocazione non raggiungeranno il 60% del fabbisogno totale individuato dal Consiglio per l’anno in questione o non raggiungeranno il numero stabilito dal regolamento (30.000)”.