“Anche se il viaggio è incredibilmente pericoloso, la loro aspettativa di vita si allunga nel momento stesso in cui salgono a bordo di quelle imbarcazioni, perché in Europa è talmente più alta di quella del luogo da cui provengono che, benché ci sia il 2% di possibilità di morire nelle ore successive, ci si aspetta ugualmente di vivere più a lungo salendo su una barca”. Parole politicamente ingombranti, almeno in Italia, quelle di Alan Manning, professore di Economia alla London School of Economics specializzato nel mercato del lavoro, che nel 2018 è stato presidente del Migration Advisory Commitee, il comitato consultivo indipendente sulla migrazione del governo inglese. Il professore sostiene che “l’immigrazione meno qualificata tende a svolgere lavori a basso salario e a bassa produttività, quindi va a frenare il livello di produttività” e da tempo mette in guarda sui potenziali effetti perversi che si possono innescare sul costo del lavoro di un Paese, se non si distingue tra reale carenza di manodopera e pressioni datoriali per avere manodopera sottocosto. Con Manning il Mac ha sostenuto che la Gran Bretagna avrebbe dovuto aprire maggiormente agli immigrati qualificati e con retribuzioni più elevate e ridurre drasticamente gli ingressi di manodopera a basso costo, con l’eccezione dei lavoratori stagionali nell’agricoltura. Persone che però rischiano di essere preda di datori despoti e fasce sociali che pongono una serie di delicatissime questioni socioeconomiche, dopo che umanitarie e di diritti civili. Come per gli irregolari, come il professore ha sottolineato in un colloquio con ilfattoquotidiano.it a margine del Festival Internazionale dell’Economia che si è svolto a Torino nei giorni scorsi. I richiedenti asilo che non vengono accolti, dice, “si suppone che saranno rimpatriati, ma in pratica spesso non succede. Quindi si crea una popolazione abbastanza numerosa di persone senza documenti, ma che sono ancora qui. Dobbiamo riconoscere che è in realtà molto difficile rimpatriare queste persone e che faremmo meglio a inserirli nella nostra società, dando loro alcuni diritti per lavorare e possibilmente delle competenze, perché se non lo facciamo finiranno per essere comunque sostenuti dal nostro welfare essendo le persone più povere della nostra società”.
In Italia si dice che abbiamo bisogno di più lavoratori stranieri, ma la maggior parte è impiegata in mestieri a bassa produttività. Come si fa a fare una buona politica di immigrazione del lavoro?
Penso che sia difficile. Ci sono alcuni vantaggi nell’immigrazione a bassa qualifica. Per esempio si ottiene una specie di lavoro più economico di quello che si otterrebbe altrimenti. E così assistere i genitori anziani e cose simili possono diventare più facili, più convenienti e questo è un aspetto positivo. Ma ci possono anche essere dei problemi. Se questi immigrati meno qualificati non vengono regolarizzati, possono non avere diritto ai sussidi sociali, alla previdenza, etc. Allora si finisce per avere una società più disuguale: questi migranti diventano parte del vostro sistema, ma in qualche modo vengono trattati come cittadini di seconda classe. In Gran Bretagna abbiamo una sorta di sistema di visti di lavoro che privilegia le competenze più elevate e abbiamo inserito moltissimi infermieri, medici e lavoratori nel campo dell’informatica e mestieri di questo tipo.
Ma nell’Europa del sud la migrazione va in una direzione univoca, come se ne esce?
Il mondo è molto iniquo e ci sono moltissime persone che vorrebbero trasferirsi da un Paese a basso reddito ad uno a reddito più alto e abbiamo regole che dicono ad alcuni di loro che si può fare, ma che alla maggior parte impediscono di venire. In altre parole permettiamo ad alcune persone di entrare in modo regolare, ma a molte altre diciamo: “No, non puoi venire legalmente”. E così alcune di queste persone tentano di venire attraverso il Mediterraneo per chiedere asilo. A volte la domanda è valida, altre volte no, ma una volta che sono sul vostro territorio sono sotto la vostra responsabilità, non potete dire: “Non lo voglio”. Quindi penso che dobbiamo essere realistici e riconoscere che il controllo totale su questa situazione non è possibile, che dobbiamo gestire meglio la situazione della maggior parte di queste persone che sono qui in Europa in modo più o meno permanente e dobbiamo pensare di renderli membri a pieno titolo della società.
Da noi i migranti entrano con i decreti flussi, la quota stabilita per quest’anno è di poco più di 80mila persone, circa metà destinate al lavoro stagionale…
Si può fare, ma spesso questi lavori poco qualificati sono temporanei, vengono a lavorare nell’agricoltura e in altri ambiti e va bene, è solo che 80.000 sono davvero pochi in proporzione a chi si vuole spostare e così non ha molto effetto sul numero di persone che scelgono di salire sui barconi per attraversare il Mediterraneo. Anche se il viaggio è incredibilmente pericoloso, la loro aspettativa di vita si allunga nel momento in cui salgono a bordo d quelle imbarcazioni, perché in Europa è talmente più alta di quella del luogo da cui provengono che, benché ci sia il 2% di possibilità di morire nelle ore successive, ci si aspetta ugualmente di vivere più a lungo salendo su una barca. Quindi l’incentivo a intraprendere questi viaggi è grande e credo che molti dibattiti al momento non siano molto realistici al riguardo: da una parte si dice “sì, accogliamo tutti”, dall’altra si dice “no, non vogliamo nessuno”. Credo che nessuna delle due cose sia possibile.
Recentemente ha parlato di un programma di mobilità giovanile, che cosa intende esattamente?
Se volete della migrazione a basse competenze, un modo di farla è fare un visto per cui le aziende agricole possono assumere dei migranti per lavorare nelle fattorie. Il problema con questi lavoratori è che sono abbandonati, sono legati a un datore di lavoro che li tratta molto male e non riescono a uscirne. Allora è meglio avere un programma di mobilità per i giovani che autorizzi le persone giovani a stare per un periodo limitato di 2 o 3 anni e a lavorare per chi vogliono. Così se è sono sotto un cattivo datore di lavoro possono cambiare. In Gran Bretagna lo facciamo già con Australia, Nuova Zelanda, Giappone, ma dopo la Brexit sarebbe positivo farlo anche con l’Europa e riallacciare dei legami. Questi programmi riguardano però la conoscenza reciproca, non c’entrano con le pressioni migratorie dal sud del mondo.