Cinema

Jurassic Park, trent’anni dopo

Nella classifica dei cinquanta film col maggiore incasso della storia, ad oggi il più “antico” è Jurassic Park di Steven Spielberg, al quarantaquattresimo posto. Il fatto che dalla sua uscita siano passati trent’anni, e che due dei suoi spin-off meno riusciti siano rispettivamente all’ottavo posto (Jurassic World del 2015) e al diciottesimo (Jurassic World: Fallen Kingdom del 2018) di questa lista, ci dice tanto non solo della ripetitività dell’offerta cinematografica odierna, quanto dell’impatto che la pellicola ebbe sia sul concetto di blockbuster estivo che sull’immaginario del grande pubblico.

Lo storico primato al botteghino durò quattro anni prima di cedere il passo a Titanic di James Cameron, esattamente il tempo che ci volle per produrre il primo sequel, l’unico diretto dallo stesso Spielberg nonché il più solido dei cinque realizzati.

La premessa del film – basato sull’omonimo romanzo di Michael Crichton, che partecipò anche alla stesura del riadattamento – è la seguente: due paleontologi e un matematico si trovano a visitare un’isola trasformata in un parco a tema, in cui il ricco fondatore di una società di ricerca genetica è riuscito a far rivivere una nutrita fauna di dinosauri. Partecipano al tour anche i due brillanti nipotini dell’eccentrico magnate. Qualcosa andrà irrimediabilmente storto – a causa di un sabotaggio legato a manovre di spionaggio industriale – e la gita si trasformerà in una fuga per la sopravvivenza dalle grinfie di feroci predatori.

Il successo fu enorme e sostenuto da una sceneggiatura consapevole, al netto della sospensione dell’incredulità richiesta. Il motivo per cui l’idea alla base del franchise mantenne una notevole eco sta nel fatto che Jurassic Park non fosse un film “sui dinosauri”, ma piuttosto sulla prospettiva umana dei rapporti di forza tra Ordine e Caos e, soprattutto, sul ruolo della procreazione nell’evoluzione della specie. Lo dimostra il fatto che, su 127 minuti di pellicola, solo 15 tra questi avevano dinosauri come protagonisti, i quali non si limitavano solo a fare da motore all’azione, ma giungevano in scena sempre col compito di elicitare una paura atavica dei protagonisti, o a farle da specchio rappresentandone l’ombra primordiale.

Come sovente gli è capitato, a Spielberg riuscì l’impresa di utilizzare un elemento spettacoloso come pretesto per parlare della società del tempo. Gli elementi c’erano tutti: lo stupore per una natura imponente e perduta, l’orrore per le sue leggi predatorie e sorde; ma ancora: la percezione di aver raggiunto un apice scientifico-tecnologico – che permetteva all’essere umano di giocare a interpretare Dio – la spinosa questione etica e morale che ne conseguiva e il confronto tra gli istinti di sopravvivenza di ben due specie dominanti sul pianeta, appartenenti a due ere differenti e lontane.

Tutto, in Jurassic Park, è avventurosa allegoria cinematografica. Dall’evoluzione affettiva di Alan Grant, il paleontologo interpretato da Sam Neill, che – banalizzando per ragioni di spazio – passa dal preferire i velociraptor ai bambini al tutelare i bambini dai velociraptor, alla composizione cromatica e archetipica del cast principale. Basti pensare alla contrapposizione del bianco outfit del ricco John Hammond (Richard Attenborough), autoreferenziale demiurgo di un Ordine che si rivelerà precario, con il completo nero del luciferino Ian Malcolm (un irresistibile Jeff Goldblum), scettico contestatore esperto di teoria del Caos. O anche alla complementarità di blu (ricettivo) e rosso (attivo) nel vestiario di Alan Grant e della sua collega Ellie Sattler (Laura Dern), chiamati a esperire una genitorialità elettiva nei confronti dei due ragazzini, Lex e Tim (Ariana Richards e Joseph Mazzello).

Col senno di poi, probabilmente Jurassic Park è stata la più spettacolare trasposizione mitologica del baby boom al cinema. A rivederlo attraverso gli occhi del bambino di allora, immerso in una civiltà dei consumi in dirompente ascesa e desiderosa di compiacere interi nuclei famigliari, non ci sarebbe da stupirsi del sicuro effetto ottenuto dal connubio tra una grande avventura visiva, firmata da uno dei più grandi registi di Hollywood, e giganteschi rettili resi per la prima volta in maniera realistica sullo schermo. A riscoprirlo con lo sguardo disilluso della società odierna, liquida e iper-razionale, rimane comunque intatto l’autorevole profilo cinematografico, e si rinsalda la nozione di cinema commerciale di allora, quale commento dell’industria non tanto a sé stessa e ai suoi mezzi, quanto allo spirito narrativo del suo tempo.