La questione torna d’attualità a intervalli regolari. Durante ogni Coppa del Mondo, prima di ogni finale continentale, alla vigilia di ogni derby più o meno d’alta classifica. I biglietti evaporano poche ore dopo la messa in vendita per poi riapparire magicamente poco prima della partita, davanti allo stadio o fra le onde perigliose di internet. Ovviamente a prezzi pornografici. Le cronache degli ultimi giorni sono state particolarmente inquietanti. Cinquecento euro per la finale dei Playoff di B fra Bari e Cagliari. Mille per quella di Europa League tra Roma e Siviglia. Millecinquecento per la notte che consegnerà alla storia della Champions il Manchester City (con l’Inter ko). È un gioco di prestigio che droga il punto di equilibrio fra domanda e offerta del mercato. E che si basa sullo sfruttamento della passione altrui. Si chiama bagarinaggio, una parola peculiare che deriva dall’arabo baqqāl, ossia “venditore al minuto”, ma che racchiude un significato odioso. Perché la storia sociale di questa pratica evoca ricordi tristi e dolorosi. Soprattutto in Italia.
La prima volta che il lemma “bagarinaggio” compare su un giornale è il 21 agosto del 1877. E lo sport non c’entra niente. I bagarini si avvicinano agli agricoltori alle porte della capitale e impongono la loro legge. Il cibo viene acquistato a un prezzo più basso di quello del mercato per poi essere rivenduto privatamente a cifre salatissime. “Si tratta di una specie di monopolio camorristico sul piccolo commercio in genere e su quello di frutta in genere” scrive il Corriere della Sera. E ancora: “Roma è pel bagarinaggio quel che Napoli e Palermo sono per la camorra e la mafia: il fonte battesimale!”. La situazione è talmente grave che tre anni più tardi si decide di aprire a via dei Cerchi, a due passi dalla Bocca della Verità, un “mercato garantito”, con prezzi “discreti” e soprattutto “senza intermediari”. È una zolletta di zucchero in un mare di lacrime. Nel giugno del 1893 un pasticcere decide di aggirare i bagarini e si mette a raccogliere la frutta per le sue conserve direttamente in campagna. Non è una decisione poi troppo saggia. Quando gli incettatori scoprono la “razzia” si presentano nel suo negozio per spiegargli la situazione. Se la storia dovesse ripetersi, dicono, potrebbero esserci conseguenze spiacevoli. E loro non vogliono certo fare male a un pasticciere.
Il bagarinaggio, però, non colpisce solo il popolino, ma anche la monarchia. Il 15 aprile del 1883 Tommaso di Savoia, duca di Genova, impalma Isabella di Baviera. Le nozze si svolgono al castello di Nymphenburg, a Monaco. Ma la festa popolare colora la capitale del Regno. La Corona organizza una serie di eventi che culminano con un “Torneo” il cui ricavato andrà in beneficenza. Solo che i bagarini hanno acquistato la maggior parte dei biglietti. Il costo originario è di tre lire, ma loro sono pronti a chiederne quindici a tagliando. “Tutti protestano contro questa schifosa camorra indegna di una società civile” scrive Il Messaggero. La situazione si fa così delicata che la Corona pensa addirittura di annullare il torneo per non darla vinta ai bagarini. “A Milano le cose sarebbero andate diversamente” scrive polemicamente il Corriere della Sera. Ma non è vero. Perché gli spettacoli del Teatro alla Scala aprono nuovi orizzonti all’idea di bagarinaggio. La pratica è talmente diffusa che compagnie e autorità comunali iniziano a sperimentare una lunga serie di trovate per beffare gli incettatori. Solo che nessuna darà i frutti sperati.
Il 28 gennaio del 1893 gli occhi della città sono tutti per la prima del Falstaff. La decisione degli organizzatori è singolare. Per evitare il bagarinaggio viene fissato un prezzo piuttosto alto per l’accesso ai palchi: 5 lire. Poi, nel corso della stagione, la compagnia si impegnerà a eseguire due rappresentazioni a metà prezzo. Sembra una trovata geniale, ma non lo è. Il dibattito si fa infuocato. Carlo Antongini, consigliere comunale e membro della commissione di sorveglianza del Teatro, lancia un’altra proposta: vendere i biglietti direttamente di sera, all’apertura del teatro, con conseguente obbligo per gli acquirenti di entrare subito in sala. È un’idea sconcertante. “In questo modo – scrive un cittadino al Corriere – è precluso l’accesso al teatro alla maggior parte delle persone civili, soprattutto se debbano accompagnarvi signore e signorine”. Nessuno ha voglia di cenare alle cinque per presentarsi davanti alla biglietteria alle sei e poi essere costretto ad aspettare fino alle 19.20. Mentre anche l’Ippodromo di San Siro decide di adottare la vendita in loco, intorno alla Scala pace una rampogna infinita. Si trovano rimedi che poco dopo vengono disfatti per poi essere adottati nuovamente. È un circolo vizioso e grottesco. Quando viene imposto il limite di due tagliandi a persona, i bagarini assoldano qualche dozzina di disoccupati a cui far fare la fila. Ma anche l’incettatore corre il suo rischio d’impresa: restare con i biglietti invenduti in mano. Così, una volta fiutata l’aria, si spaccia per un portiere d’albergo che riporta i tagliandi al Teatro perché la misteriosa famiglia che aveva dato l’incarico dell’acquisto non è riuscita ad arrivare in tempo. Per mettere fine alla questione la Direzione del Teatro alla Scala decide di non rimborsare i biglietti venduti. E per qualche tempo sembra anche funzionare.
Nel novembre del 1945 il bagarinaggio compie un incredibile salto di specie. La riapertura delle linee ferroviarie è accompagnata da una novità: i biglietti ora devono essere prenotati. Significa rischiare di passare ore intere in fila. Gli accaparratori aspettano il loro turno con pazienza. Poi acquistano una quantità insensata di tagliandi che rivendono con una cospicua maggiorazione. È una pratica triste che racconta piuttosto bene un Paese che non si è ancora soffiato via di dosso l’orrore della Grande Guerra, dove in molti provano ad arrabattarsi, cercando di mettere insieme il pranzo con la cena in qualche modo. Poco meno di quarant’anni dopo, invece, il bagarinaggio cambierà pelle. Non si farà più sui beni primari, ma su quelli di lusso. Sul finire degli anni Ottanta, infatti, Ferrari e Porsche lanciano degli esemplari a tiratura limitata rispettivamente della GTO e della 959. Il prezzo di listino è di 400 milioni di lire (circa 472mila euro di oggi). Solo che molti modelli finiscono nelle mani dei bagarini, che poi le rivendono alle loro condizioni.
Il bagarinaggio nel calcio ha una cadenza quotidiana. Ogni partita di cartello si porta dietro la sua spietata rivendita clandestina. Tanto che tracciare una mappa dal fenomeno è pressoché impossibile. Va avanti così per anni. In tutti gli stadi. In tutte le competizioni. Con i giornali che non fanno altro che scandalizzarsi per l’aumento dei prezzi imposto dagli incettatori. Con la polizia che sembra lo Stato cantato da De André, quello che “Si costerna, s’indigna, s’impegna/ Poi getta la spugna con gran dignità“. Eppure l’operato dei bagarini rischia di portare addirittura a delle crisi diplomatiche. Nel 1963 Italia e Unione Sovietica si affrontano in una gara di qualificazione agli Europei dell’anno successivo. I biglietti vengono messi in vendita e finiscono immediatamente. Poco dopo un uomo viene fermato e viene trovato in possesso di un intero pacco di tagliandi. I tifosi sono inferociti. E sulla questione si esprime duramente addirittura il corrisponde romano della Pravda, l’organo di stampa della Partito Comunista sovietico. “Roma è diventata testimone di una grande speculazione […] Se volete acquistare un biglietto, dovete recarvi di buon mattino in piazza Vittorio o nei pressi della stazione o a Campo de’ Fiori: lì troverete i biglietti ma li pagherete almeno tre o quattro volte di più. […] Chi può acquistare un biglietto a trentamila lire, cioè per la metà dello stipendio di un operaio edile? Solo la gente molto ricca”.
Prima del derby di Milano del 1965 i biglietti dei settori popolari sono finiti subito nelle mani dei bagarini. Così Angelo Moratti chiede ufficialmente alle forze dell’ordine di aprire un’inchiesta. Sei anni più tardi, invece, la stracittadina fa registrate il nuovo record di incassi. Fanno 193 milioni di lire. Solo che non ci sono molti aspetti positivi nella vicenda. Alcuni “grossisti” hanno fatto incetta dei tagliandi e li hanno venduti, con un sovrapprezzo, ai bagarini minori. E ora questi li cedono nuovamente per la seconda volta a prezzi osceni. È una piramide della speculazione che si porta dietro litigi e anche qualche ceffone. Alcuni bagarini si piazzano proprio in via Amedei, di fronte al circolo dell’Inter. Il traffico impazzisce. Le zuffe aumentano. Così i vertici nerazzurri non fanno altro che chiamare la polizia. Ancora. E ancora. E ancora.
Ma non mancano neanche storie da rubagalline. Nel 1982, proprio all’inizio della seconda settimana del Mondiale spagnolo, 5 scozzesi vengono arrestati a Siviglia per bagarinaggio. Uno di loro, Robert Torrance, viene trovato con un numero esagerato di biglietti infilati nelle tasche. La polizia perde parecchio tempo a contarli. Perché i tagliandi sono addirittura 728. Ma gli affari loschi cingono d’assedio anche il tennis. Durante il torneo di Wimbledon del 1988 i giornali accusano Jimmy Connors di bagarinaggio. Lo scandalo è enorme. L’uomo che ha scritto la storia della racchetta diventa una macchietta. Ma dura poco. Il grande vecchio è innocente. Aveva solo regalato due biglietti a un amico che, trovandosi senza contanti, aveva pensato bene di rivendere i tagliandi a peso d’oro.
Il 1990 è un anno d’oro per i bagarini. Il Franchi è in ristrutturazione per i Mondiali, così la finale di ritorno di Coppa Uefa fra Fiorentina e Juve si gioca ad Avellino. Gli incettatori si piazzano addirittura in autostrada, già cinque chilometri prima dello svincolo per il capoluogo irpino. Neanche un mese prima un tifoso interista aveva deciso di acquistare da un bagarino un biglietto per la sfida contro l’Atalanta. Costo: 50mila lire. Ma 30mila erano di “commissione” per l’incettatore. Una volta preso il tagliando l’uomo aveva scoperto il trucco. Sopra c’era scritto: “Biglietto omaggio partita Inter-Napoli”. Che si era giocata un mese prima. L’uomo si mette a rincorrere il bagarino che gli dice di presentarsi col tagliando al cancello numero 6, dove lo avrebbero fatto entrare senza problemi. Ed era andata a finire proprio così.
A Italia ’90 diventa qualcosa di molto simile all’El Dorado per i malandrini. In un mese di lavoro i bagarini stimano di poter guadagnare 50 milioni di lire. A testa. Alcuni settimanali irlandesi la sparano grossa: la mafia palermitana avrebbe acquistato il monopolio nel mercato nero dei biglietti esercitando il controllo sulle prostitute portatrici di AIDS. È un nesso di casualità difficile da comprendere. E che genera indignazione. Tanto che alla fine arriveranno le pubbliche scuse del ministro dello Sport irlandese. Intanto i bagarini affinano la propria tecnica. Anzi, la prendono in prestito dagli spacciatori. Non si fanno più trovare con i biglietti addosso, ma li tengono in un luogo segreto. E una volta chiusa la trattativa la consegna verrà effettuata lontano dallo stadio, in un bar o a bordo di un’auto. Dopo i Mondiali Milano viene travolta dal concerto di Eros Ramazzotti. E il suo pop melenso farà breccia nei cuori dei bagarini. I biglietti costano 30mila lire. Gli incettatori li vendono a 35. Qualcuno domanda a uno di loro il motivo di tanta indulgenza. “Ma sì, sono ragazzi – risponde il bagarino – mi rifarò a San Siro quando ricomincia il campionato”. Ma un quarto di secolo dopo la storia non è cambiata poi molto. Durante Brasile 2014 la polizia locale arresta Raymond Whelan, direttore di Match, agenzia legata alla Fifa che ha l’esclusiva sulla vendita dei pacchetti di ingressi della Federcalcio internazionale. L’accusa? Bagarinaggio. Anzi, no. L’uomo sarebbe addirittura la figura di raccordo fra l’ente svizzero e una cupola che gestisce il mercato nero dei biglietti. Quella del bagarinaggio è una storia immorale e complessa. Ma che in quasi in un secolo e mezzo di storia non ha mai cambiato il proprio scopo: lucrare sui bisogni e sulla passione della gente.