Santificato a ogni latitudine (o quasi) come un gigante a tutto tondo già alcuni minuti dopo l’annuncio della sua morte, Silvio Berlusconi se n’è andato come un nano della politica, proprio lui che si faceva rialzare i tacchi per sembrare più alto. Il berlusconismo in senso parlamentare o partitico ha perso infatti la sua centralità da ben due elezioni politiche: poco più del 14 per cento (quarta forza) nel 2018 e sotto il 10 per cento (8,1) nell’autunno del 2022. Non solo. Nell’ultimo lustro, l’ex Cavaliere non ha mai nascosto la sua insofferenza per la leadership di Matteo Salvini prima e per quella di Giorgia Meloni dopo. Più un terzo incomodo che un padre nobile. Un po’ troppo per un narciso che nelle barzellette fa persino del Padreterno il suo vicepresidente.

Precisato questo, restano ovviamente le macerie del berlusconismo politico e tra le tante cose dette in queste ore (la discesa in campo, il partito leggero, la finta rivoluzione liberale, la videocrazia ovvero il peronismo mediatico) nessuno ha ricordato le collusioni piduiste e posfasciste comuni sia a Giulio Andreotti sia a Silvio Berlusconi. Queste affinità non sono un dettaglio secondario nella parabola dell’Unto del Signore. Entrambi sono stati i presidenti del Consiglio più longevi (B. con 3.339 giorni; il Divo Giulio con 2.678) ed entrambi sono morti inseguiti da giudizi controversi e divisivi e risucchiati dalle ombre della mafia. Perché se Andreotti aveva in Sicilia il chiacchierato Salvo Lima, ammazzato nel marzo del Novantadue stragista, Berlusconi ha avuto Marcello Dell’Utri.

Senza entrare nel merito della “continuità” tra la Dc andreottiana e Forza Italia nelle connivenze con Cosa Nostra (a partire dalla Trattativa), si può affermare tranquillamente che Berlusconi è stato il vero erede dell’andreottismo della Prima Repubblica. Certo, sono state due personalità differenti: Andreotti era monogamo, non aveva carisma e la sua tv era in bianco e nero, ossia l’esatto contrario di Berlusconi. Ma queste sono sovrastrutture. Perché a contare è stato il metodo: cioè la gestione pura del potere fine a se stesso, contando sovente sulla pratica consociativa con l’opposizione di sinistra. E nel caso di B. il poterismo è stato aggravato dal conflitto d’interessi e dalle decine di leggi ad personam.

Come che sia, sin dalla fatidica discesa in campo del 1994, l’ex Cavaliere ha affogato la sua rivoluzione liberale in una sorta di nuovo rito andreottiano amministrato dal Gran Visir dei poteri forti della Capitale: l’immarcescibile Gianni Letta. Uno spaccato di questa gestione, dopo le elezioni politiche del 2008, fu la micidiale combinazione tra gli scandali sessuali di B. e l’inchiesta sulla P4, laddove il faccendiere lettiano Luigi Bisignani veniva consultato telefonicamente da varie ministre azzurre.

Ed è per questo che il berlusconismo è stato una sorta di populismo perfettamente integrato nel Sistema. Del resto la figura concava e convessa di B. ha mutato colore e postura a seconda delle convenienze e delle fasi, ma sempre sventolando la bandiera scudocrociata dell’anticomunismo e mettendo insieme anche i superstiti del vecchio pentapartito (Dc, Psi, Pri, Psdi e Pli).

E a proposito di B. primo populista dell’Occidente per quanto riguarda la propaganda e la comunicazione elettorale: l’ultima volta che l’ex Cavaliere ha fatto notizia al Senato è stato quando ha detto “vaffanc*lo” a Ignazio La Russa, durante il tormentato periodo tra le elezioni politiche e la formazione del governo Meloni.

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