Politica

Da Alfano a Toti, “tutti i delfini del presidente”: la difficile eredità politica di Silvio Berlusconi. L’unica con il “quid”? La primogenita Marina

Da Franco Frattini a Maurizio Scelli, da Fini a Casini e fino al giovin Toti. A furia di “mi consenta” Silvio Berlusconi non l’ha permesso a nessuno. Nessun delfino, solo spigole e orate portate alla ribalta come possibili eredi e presto inabissate per manifesta indisposizione del leader a farsi da parte. Come il Re Corinto morì senza eredi, così Berlusconi troverà un Sisifo a sostituirlo. Per 30 anni tanti ci hanno creduto, sperato, contando sulla designazione feudale. Altri (pochi) ci hanno provato a suon di spallate. Ma il Cavaliere tanti ne ha illusi e altrettanti superati per longevità politica e umana. Gli venivano presto a noia perché nessuno, neppure Angelino Alfano, aveva il “quid” del numero uno, dell’uomo della provvidenza arcivolte “unto dal signore”.

Tutti insieme, potrebbero riempire un album di figurine, un annuario dei bei tempi andati che inizia nel 1993 con Mariotto Segni, l’alter ego prima della discesa in campo, e finisce con la “S” di Stefano Parisi, il manager-politico che sua emittenza incorona pro tempore per il pronto rilancio di Forza Italia, con comprensibili brusii in azienda e nel partito sopiti solo dalla repentina scomunica. Il penultimo, Giovanni Toti, se l’è praticamente divorato perché flirtava con la Lega, e pazienza se era mezzo cannibalismo, avendo l’altro speso mezza carriera tra gli studi Mediaset e l’altra in Forza Italia. Possono consolarsi: la solitudine dei numeri secondi non esiste. Tra i tanti vanno ricordati almeno Franco Frattini, Maurizio Scelli, Corrado Passera, Roberto Formigoni, Giampiero Samorì, Guido Bertolaso, Raffaele Fitto e Alfio Marchini. Con tante scuse agli ex designati che non vengono citati.

Va anche detto che non tutti i predestinati cestinati hanno avuto con il Cavaliere un rapporto di mero vassallaggio. Su tutti lui, Gianfranco Fini, che se lo coltivò per portare la destra missina a ruoli di governo e alla pubblica accettazione fino al famoso “che fai, mi cacci?” che decretò la sua fine politica con pensione vista Montecarlo. Nel binocolo di Arcore sguazza da sempre l’adorato Paolo Del Debbio, predestinato papabile nell’era dei trumpismi ma poi confinato anche lui nell’acquario dello studio 5 di Cologno Monzese. Tediato dal talent, ha anche guardato agli outsider tipo Renzi, ma anche lì nulla di fatto. Avanti un altro.

Da menzionare anche le infatuazioni femminili, non sulle curve di via delle Olgettine, ma per figure in rosa algide e per nulla concessive, piglio manageriale. Letizia Moratti, ad esempio, che sarà la “nostra Lady di Ferro”. Vittoria Brambilla, cui nel 2007 Berlusconi voleva affidare tutta la baracca. Che fossero amazzoni o generali Montgomery in gonnella, hanno forse pensato davvero di prendersi il partito del fondatore. Ma neanche quelle erano poi all’altezza del gran sovrano della “casa dei moderati”. Una fa a pugni con la politica e corre da sola come Forrest lungo lo stradone semideserto dei liberali cattolici, senza che si vede la meta. L’altra è stata tenuta a bagno in Parlamento ma degradata al ruolo di consigliera zootecnica.

Tra i famigli, l’unica erede papabile è sempre stata lei, Marina Berlusconi. Specie quando i guai giudiziari del fondatore dell’azienda di famiglia da 2,9 miliardi di fatturato hanno iniziato a rendere fosco il futuro del Biscione. L’ipotesi prese corpo davvero nel 2013, con la decadenza da senatore. Ad Arcore si fecero piani strategici con forchetta e coltello per dividere a tavolino il piatto politico e quello industriale. Lei, la primogenita, era la designata. E potrebbe esserlo ancora. L’unica “sua emittenza” col quid richiesto dal ruolo. Si aspetta benedizione dall’alto.