Gli agenti indagati per le violenze al carcere di Biella hanno “operato sì impropriamente nell’adozione di misure di rigore complessivamente eccessive e illegittime (fra cui, appunto, l’apposizione del nastro agli arti inferiori), ma non in un gratuito contesto ‘torturante‘”. Per questo non dovrebbero rispondere del reato di tortura, ma piuttosto di lesioni, percosse e abuso di autorità. Con queste motivazioni il Tribunale del Riesame di Torino ha revocato le misure interdittive – sospensioni dal servizio dai 6 ai 12 mesi – che lo scorso 22 marzo avevano colpito 23 agenti di Polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di via dei Tigli, accusati di “violenze fisiche e psicologiche” (ricondotte dai pm al reato di tortura) nei confronti di tre detenuti. Con una postilla: i reati così derubricati dovrebbero ricevere “un trattamento sanzionatorio più severo dell’attuale e comunque tale da consentire l’irrogazione per i responsabili non solo di sanzioni disciplinari, ma anche dell’applicazione di misure cautelari”.
Il 10 febbraio su richiesta dei pm Maria Angela Camelio e Sarah Cacciaguerra era finito ai domiciliari il vicecomandante della polizia penitenziaria, già trasferito al Pagliarelli di Palermo in seguito a un procedimento disciplinare. Era stato lui con un esposto a dare abbrivio all’inchiesta che ora lo vede tra gli indagati. Nelle 17 pagine depositate martedì, il giudice Stefano Vitelli ripercorre i fatti e il contesto in cui sarebbero maturati. Agli agenti, difesi tra gli altri dagli avvocati Sergio Gronda, Antonio Mencobello e Manuela Piras, viene contestato l’utilizzo di “mezzi impropri, eccessivi e per certi aspetti inutilmente violenti”: “schiaffi e calci” a un detenuto albanese sospettato di spacciare in carcere, che sarebbe rimasto “legato per più di due ore con del nastro adesivo alle spalle, ginocchia e gambe”, percosse a un detenuto georgiano “al quale venivano pure tolti i pantaloni”, ma anche un vero e proprio pestaggio ai danni di un recluso che doveva essere trasferito a Ivrea, circondato da agenti “armati di manganelli” anche con “una finalità di congedo punitivo/violento”.
Quanto al vicecomandante, secondo il suo superiore usava “il polso duro” ed era avvezzo a “metodi anacronistici, come collocare un detenuto nella cella nuovi giunti e farlo aspettare due ore” o “denudare i detenuti per controllarli”. Misure in parte documentate dai filmati delle telecamere di videosorveglianza interna e definite “arbitrarie” dal Riesame. Si tratta però di violenze fisiche che non presentano la “spiccata gravità complessiva delle condotte tipiche di tortura” né rientrano nella definizione di “trattamento inumano e degradante”, ma che comunque integrano “un reato grave come l’abuso di autorità”.
In particolare il giudice prende a riferimento la prassi di immobilizzare le gambe di un detenuto già ammanettato: nel caso di specie manca il “contesto oggettivamente e soggettivamente teso ad umiliare la persona offesa, a deriderla per una situazione che obiettivamente la mortifica ad un livello di res”, come invece richiede l’articolo 613-bis del codice penale. Negli episodi contestati infatti gli agenti avrebbero agito per placare e contenere detenuti agitati e minacciosi e avrebbero prontamente chiamato il medico per consultarsi e chiedere aiuto. Per il delitto di tortura, poi, non basta “un unico episodio di pestaggio”, ma occorre dimostrare una “pluralità di condotte violente gravi” in grado di procurare significative sofferenze fisiche e psicologiche alla vittima. In sintesi, rileva il giudice, al “rigoroso meccanismo sanzionatorio” (con pene dai 5 ai 12 anni di carcere) previsto dall’articolo 613-bis fanno da contrappunto difficoltà “nell’esatta interpretazione degli elementi costitutivi del reato”. Proprio questa incertezza renderebbe difficile contestarlo agli “uomini in divisa”.